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Dazi: Europa sotto accusa, «troppo timida» con Trump. Ecco cosa c’è dietro

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Di fronte alla nuova minaccia di super-dazi lanciata da Trump all’Europa, si percepisce in molti ambienti europei una indignazione e una rabbia rivolta non solo verso il «bullo» americano ma anche verso le autorità di Bruxelles: perché non reagiscono più duramente, perché non impartiscono una sonora lezione a chi minaccia e ricatta?

È possibile, forse è diventato più probabile, che le ritorsioni ci siano. Saranno però delle rappresaglie limitate, condizionate dalla volontà di mantenere il dialogo e raggiungere dei compromessi. La strada preferita da Ursula von der Leyen – d’accordo con molti governi dell’Unione, primo fra tutti quello del suo paese – è quella della moderazione e del negoziato a oltranza. 

Perché? Una spiegazione fondamentale sta nell’asimmetria di questa guerra economica (poiché di guerra si tratta, non c’è dubbio). L’America ha meno bisogno del commercio estero, rispetto alla maggioranza degli altri paesi, incluse molte nazioni europee. I numeri che illustrano meglio questa disparità, sono i Trade Openness Index elaborati dalla Banca mondiale, cioè gli indici di apertura al commercio estero. Si ottengono sommando le esportazioni e le importazioni di un paese, in proporzione al proprio Prodotto interno lordo. 

Per la Germania esportazioni e importazioni arrivano addirittura al 90% del Pil. Per Italia e Francia il valore è identico, il commercio estero vale il 68% del Pil. Per gli Stati Uniti? Solo il 27%. Neanche un terzo del Pil americano è legato al commercio con il resto del mondo. Quand’anche l’escalation dei dazi dovesse continuare a oltranza, in una guerra di ritorsioni a catena, occhio per occhio dente per dente, il danno che l’America può infliggere è molto superiore al danno che altri le possono restituire.

Questa asimmetria spiega d’altronde la «delusione» sulla risposta timida di tanti governi, anche non europei. (Con poche eccezioni, tra queste la Cina che ha saputo capitalizzare la sua posizione dominante, quasi monopolistica, in alcuni settori come terre rare e minerali strategici). Gli elettori canadesi credevano di aver scelto in Mark Carney un premier che gliele avrebbe suonate al bullo della Casa Bianca? Ma al primo scontro vero il premier canadese ha battuto in ritirata cancellando un progetto di tassa digitale che avrebbe penalizzato soprattutto le grandi multinazionali Usa. 

In Giappone, l’opinione pubblica è indignata quanto quella europea per il comportamento di Trump, ma i governanti di Tokyo cercano il dialogo e il compromesso a oltranza proprio come Ursula von der Leyen. Il Canada ha un Trade Openness Index praticamente identico a Italia e Francia, il commercio estero vale il 67% del suo Pil; il Giappone è a quota 47%, comunque quasi due volte la dipendenza degli Stati Uniti.

L’economia americana è meno «estroversa», è più autosufficiente, è più orientata al proprio vasto mercato interno, rispetto a molte altre economie. Al tempo stesso, dalla fine della seconda guerra mondiale l’America è stata quasi sempre il «compratore di ultima istanza», il mercato più aperto, quello che assorbiva le merci altrui e così facendo trainava la crescita degli altri. Tutti quei paesi che hanno costruito dei modelli economici dove le esportazioni sono il motore della crescita, hanno fatto affidamento sull’apertura del mercato americano. Questo li rende poco inclini ad allearsi fra loro contro l’America. È questa la ragione per cui una grande coalizione di «tutti gli altri contro Trump» è poco realistica, e come tale non viene presa in seria considerazione dalla Commissione europea. 

La Cina non è interessante come alleata per Bruxelles, perché sta già rovesciando sui mercati europei la sua sovrapproduzione, mettendo in crisi settori come l’industria automobilistica europea (lo aveva già fatto in tanti altri casi: cominciò dal tessile-abbigliamento e l’arredamento, proseguì con gli elettrodomestici e l’elettronica, arrivò ai pannelli solari).

Si può deprecare che Trump stia trascinando il mondo intero in un nuovo paradigma economico fondato in modo esplicito, sfacciato, sui rapporti di forze. I segnali però si stavano accumulando da tempo, e perfino prima del suo mandato precedente, di una disaffezione degli Stati Uniti dalla globalizzazione com’era stata costruita negli anni 1990-2008. E in ogni caso deprecare le nuove regole del gioco serve a poco. La cautela di Bruxelles è la presa d’atto che il margine di manovra dell’Europa è limitato. Lo conferma, qui sotto, lo scenario di previsione del think tank Eurasia Group, a firma del suo direttore per l’Europa, Emre Peker:
«L’Ue continuerà a dare priorità a un accordo con gli Stati Uniti, pur preparando misure di ritorsione in vista della scadenza del 1° agosto, nonostante la minaccia di Trump di introdurre una tariffa di base del 30%. Le priorità europee restano immutate. La maggior parte dei 27 Stati membri dell’Ue accetterà una tariffa di base statunitense del 10%, a condizione che vengano concordate esenzioni da dazi reciproci e settoriali – alcune immediate e altre da definire nell’ambito di un accordo finale. 

L’obiettivo di Bruxelles resta quello di ridurre l’aliquota effettiva al di sotto della tariffa di base tramite l’uso di quote e di proteggere i settori europei strategici, tra cui aeronautica, metallurgia, auto, macchinari e agricoltura. La minaccia di Trump di triplicare l’aliquota viene considerata dall’Ue una tattica negoziale e non un punto di arrivo. Detto ciò, l’Ue minaccerà di colpire esportazioni statunitensi per un valore fino a 116 miliardi di euro con contromisure tariffarie e di ricorrere a ulteriori strumenti commerciali – incluso il potente Strumento Anti-Coercizione (ACI) del blocco, che potrebbe colpire le esportazioni di servizi americani – per incentivare l’amministrazione Trump a raggiungere un’intesa. 

Le minacce statunitensi di una tariffa di base al 30% – e qualsiasi richiesta di innalzare l’aliquota reciproca al 15% o oltre – aumentano il rischio di un’“escalation contenuta” nelle tensioni commerciali transatlantiche e riducono la probabilità dello scenario di “tregua” (che rimane comunque favorito, con una probabilità al 50%). Bruxelles prorogherà fino al 1° agosto la sospensione dei dazi di ritorsione su beni statunitensi per un valore di 21 miliardi di euro, introdotti in risposta ai dazi di Trump su acciaio e alluminio. 

La lettera di Trump alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, in cui prospetta la tariffa di base del 30%, probabilmente rafforzerà la determinazione dei membri UE a reagire in assenza di un accordo entro il 1° agosto – e a varare misure di riequilibrio su un secondo pacchetto di beni americani del valore di 95 miliardi di euro. 

Mentre Francia, Spagna e altri Paesi membri spingeranno per una forte ritorsione contro i dazi di Trump, la Commissione inizialmente si concentrerà con tutta probabilità sull’aumento delle tariffe sui beni statunitensi. Uno scenario di escalation che sfoci nello scenario del “di guerra commerciale” (solo il 10% di probabilità) porterebbe Bruxelles a dispiegare misure ulteriori come controlli/esportazioni soggette a dazi, restrizioni agli appalti pubblici e/o sanzioni sulle esportazioni di servizi statunitensi (utilizzando come ultima risorsa il bazooka commerciale dell’ACI). 

Le incertezze sui rapporti transatlantici rafforzeranno l’impegno dell’Ue a diversificare la cooperazione commerciale con partner diversi dagli Stati Uniti. Bruxelles e le principali capitali europee cercheranno sempre più di consolidare la cooperazione con altri partner commerciali per attenuare le ricadute delle politiche di Trump e raddoppiare gli sforzi per concludere nuovi accordi commerciali. 

Una risposta coordinata ai dazi di Trump con altri Paesi – come i partner del G7 – difficilmente si tradurrà nella creazione di un blocco antiamericano o in un miglioramento delle relazioni con la Cina. Aiuterà marginalmente l’Ue a far fronte ad alcune delle perturbazioni commerciali e a trovare mercati di esportazione alternativi. Favorirà la finalizzazione del patto commerciale dell’Ue con il Mercosur – Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay – e con altri Paesi come l’Australia».

14 luglio 2025

14 luglio 2025

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