
Nel 1980 Carlo Verdone debuttava al cinema con Un sacco bello. Non aveva ancora trent’anni e dava alla sua carriera un orizzonte piuttosto limitato: «Stavo sempre tra i cinque e i sei anni, non mi azzardavo di più. Pensavo che poi, dopo il successo, avrei fatto altro, forse il documentarista». Di anni, invece, ne sono passati 45: lui è diventato un mito e il suo film di culto, tanto che ieri, in piazza Maggiore a Bologna, sono accorsi in migliaia per la proiezione della versione restaurata dalla Cineteca.
Che effetto le ha fatto?
«Questo restauro è un regalo enorme, per cui ringrazio. È un film semplice ma pieno di anima, di verità e anche di solitudine. Era l’ultimo manifesto di una Roma e di un’Italia che non ci sono più».
Cosa è cambiato?
«Non c’è quel candore che ho messo nel personaggio di Leo o quella mitomania innocua del bullo, che oggi sarebbe pieno di tatuaggi e non andrebbe in Polonia, anche perché la Polonia è messa forse meglio di noi. Il mondo ora è più cinico e distratto».
Come ricorda il suo esordio? Cosa provava?
«Tanto timore. Mi ha aiutato avere un produttore come Sergio Leone, un uomo di cinema enorme, che mi voleva molto bene: si esponeva per me. Dopo Non stop (il suo programma tv ndr) mi chiamavano in tanti ma niente mi convinceva: volevo fare cose mie, i miei personaggi. Lo ha capito anche lui».
Ad esempio, quando?
«Nella scelta del regista. Dopo aver parlato con mezzo cinema italiano, da Steno a Lina Wertmüller, passando per Franco Brusati, tutti ci dicevano che non sapevano come approcciarsi a una cosa simile, perché era un mondo. A un certo punto, Leone mi disse: ho capito, lo devi girare tu».
Una sfida non da poco.
«Infatti. Mi fece affiancare da due grandi sceneggiatori, Benvenuti e De Bernardi e mi pose una condizione: “Devi venire tre mesi a casa mia e passare almeno cinque ore con me”. Voleva farmi delle lezioni di cinema».
Che consigli ricorda?
«Disse che tutti i dubbi devono venire prima di iniziare un film, mai mentre si gira: la troupe non deve accorgersi delle insicurezze. Poi si raccomandava perché facessi primi piani puliti e teneva a certe cose nel montaggio, me le faceva capire a calci nel sedere».
Veri o metaforici?
«Veri, veri. Una volta me ne diede uno molto forte ma si fece male lui perché aveva una ciabatta e io il portafoglio in tasca. Si ferì l’unghia».
Ma aveva ragione?
«Devo dire che aveva sempre ragione. Prima di girare la scena in cui telefono a mia madre per dire che tarderò il mio arrivo a Ladispoli, lui voleva che facessi tre giri di corsa attorno al palazzo, con trenta gradi, per apparire trafelato. Io dicevo: ma non mi potete spruzzare un po’ di acqua in faccia? Niente, voleva vedere il rossore, così gli feci credere di averli fatti e iniziammo a girare, ma lui entrò con la mano in campo, mi diede una sberla: “Non li hai fatti i giri”. Non ero abbastanza avvampato, era vero».
Leone teneva molto a lei?
«Moltissimo. La notte prima di girare, mi aveva consigliato di dormire presto anche se non sarebbe stato facile. Infatti non riuscivo, troppo agitato. Alle 23 suonò il citofono e mia madre venne in camera mia: “Carlo, è Sergio Leone, gli ho detto che scendi”. Pensavo mi volesse dire che saltava il film, avevo il terrore. Invece mi prese sotto braccio: “Annamose a fa’ du’ passi, sapevo che non dormivi”».
Sembra la scena di un film.
«Passeggiammo tra ponte Sisto e ponte Garibaldi. Mi distraeva con racconti della Trastevere di allora: “Là c’abitava un ladro, là un usuraio, là c’è stato un omicidio, là ci vive la donna il cui marito s’è buttato nel Tevere…” tutti fatti oscuri, delitti, gentaccia. Mi svagava. Alle 6.45 di mattina, dopo aver dormito due ore, ero carico e aspettavo mi venisse a prendere la macchina della produzione. Invece, anche al mattino, c’era lui».
E il debutto alla regia?
«Avevo una carica incredibile, non sbagliavo niente. Non sentivo la fatica, ero come drogato da un’energia strana, curiosa. Non avevo una roulotte, mi dovevo spogliare dietro i cespugli. Non avevamo i permessi, c’era gente sul set che bloccava gli autobus, le strade. Il film costò 300 milioni di lire, niente, ma andò tutto bene».
Al cinema fu un successo.
«I critici ne parlavano bene, la sensazione era che ci fosse qualcosa di nuovo. Venivamo da commedie in cui la donna era un oggetto del desiderio e il protagonista era sempre il rimorchiatore. Io sentivo che l’aria era cambiata, avevo anche una fidanzata femminista… i miei erano personaggi sconfitti, con la donna molto più energica dell’uomo».
Sente ancora Veronica Miriel, la mitica Marisol?
«Sì, lei ora è a Marbella con sua figlia dopo aver vissuto in Perù, nelle tribù andine. È una bella signora, dipinge, è sempre molto positiva e solare, ci mandiamo spesso dei saluti».
C’è qualche personaggio a cui vuole più bene?
«A Leo, al suo candore, voglio bene, anche se mi divertivo di più a fare il bullo, potevo inventare, osare. Ritrovavo ognuno di loro nelle persone che frequentavo nel quartiere, dal ferramenta all’elettrauto. Mi fermo anche oggi a parlare col benzinaio o la signora della tintoria. Uno è del Bangladesh, l’altra algerina: la società oggi è multiculturale. Ma ammetto che anche loro ripetono spesso le mie battute».
14 luglio 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA
14 luglio 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA