
Difficile trovare nel panorama intellettuale italiano un personaggio meno omologabile di Goffredo Fofi, scomparso all’età di 88 anni. Educatore, saggista, critico letterario e soprattutto cinematografico, animatore di riviste importanti come «Quaderni piacentini», «La Terra vista dalla Luna», «Ombre Rosse», «Linea d’Ombra», «Lo Straniero», «Gli Asini». Sempre fuori dal coro, dall’ufficialità, dall’accademia, dalle strutture organizzate. E non certo per il gusto di essere un cane sciolto. Era anzi ostile all’individualismo, prediligeva il lavoro di gruppo e l’intervento concreto nella società, tra la gente.
A mandarlo letteralmente in bestia era la riduzione della cultura a spettacolo effimero, a chiacchiera inconcludente, a esibizionismo sterile. In età non più giovane aveva scritto in proposito un corrosivo pamphlet intitolato «L’oppio del popolo» (Elèuthera). Ma tutta la vita di Fofi è stata una battaglia strenua, condotta nella più assoluta indipendenza da gruppi e partiti, per fare delle arti e della letteratura, che amava profondamente, strumenti di emancipazione degli umili, con l’aiuto di tutte le persone di buona volontà che aveva incrociato.
Era nato a Gubbio, in Umbria, il 15 aprile 1937, figlio di un artigiano socialista che manteneva a stento moglie e figli aggiustando biciclette e poi sarebbe andato a fare il conducente di gru a Parigi. Da bambino Fofi aveva assistito agli orrori della guerra, in particolare a una strage di civili compiuta dai nazisti nella sua città. Benché di condizione modesta, la sua era una famiglia dove circolavano libri e giornali e si andava spesso al cinema. Così il piccolo Goffredo aveva sviluppato presto una enorme passione per la lettura e per il grande schermo.
Bravo a scuola, ma bocciato in quarta ginnasio da una professoressa poco avveduta, aveva preso la licenza magistrale e poi nel 1955, a soli diciotto anni, era partito per la Sicilia, dove si era unito alle battaglie non violente di Danilo Dolci, il «Gandhi italiano», per il riscatto dei poveri. Aveva partecipato ai cosiddetti scioperi a rovescio, che consistevano nell’organizzare lo svolgimento spontaneo e non pagato di lavori pubblici trascurati dalle autorità, ed era anche finito sotto processo per azioni di disobbedienza civile. Soprattutto si era dedicato ai piccoli siciliani in stato di deprivazione e di abbandono. E ricordava quei momenti come i più felici della sua vita, insieme al periodo trascorso a Napoli più tardi, negli anni Settanta, animando la Mensa dei bambini proletari.
Occuparsi dell’infanzia gli trasmetteva enormi energie. «Non c’è niente di più bello e corroborante», diceva. Dopo l’esperienza con Dolci, Fofi si era trasferito a Torino, dove però aveva continuato a occuparsi della gente del Sud. Erano gli anni dell’esodo di massa dalle campagne ai centri industriali, che lui aveva studiato nel suo primo libro «L’immigrazione meridionale a Torino» (Feltrinelli, 1964). Pur avendo osservato da vicino le iniquità e le distorsioni che il miracolo economico aveva provocato, Fofi era convinto che la prima metà degli anni Sessanta avesse offerto all’Italia opportunità notevoli di progresso civile. In questo si era trovato a dissentire da Pier Paolo Pasolini, anche se alla lunga, avrebbe ammesso nel libro intervista «La vocazione minoritaria» (Laterza, 2009) a cura di Oreste Pivetta, che l’allarme del poeta si era rivelato lungimirante. In fondo, ammetteva, l’omologazione denunciata da Pasolini era stata portata fino in fondo dai mass media, diffusori di «una cultura unica, in cui ricchi e poveri, padroni e servi condividono gli stessi idoli e gli stessi modelli».
Tornando all’epoca del boom, Fofi era rimasto profondamente deluso dal Sessantotto, pur avendolo alimentato sulla rivista «Quaderni piacentini» assieme a Piergiorgio Bellocchio e a Grazia Cherchi. A suo avviso la contestazione aveva vissuto un periodo costruttivo durato pochi mesi, poi era caduta nei vecchi vizi della sinistra dogmatica e autoritaria di stampo leninista. Sempre lontano anche dal Pci, di cui non apprezzava appunto una certa vena conformista generatrice d’intolleranza, Fofi aveva uno spirito libertario con venature cristiane (da piccolo era stato un devoto chierichetto) e s’ispirava a figure irregolari. Per esempio Albert Camus, in onore del quale aveva chiamato «Lo Straniero» la rivista da lui diretta per circa vent’anni, dal 1997 al 2016, alla quale avevano collaborato Alessandro Leogrande, Nicola Lagioia, Roberto Saviano e molti altri.
Venerava inoltre il filosofo liberalsocialista Aldo Capitini, il più autorevole teorico italiano della non violenza. Come lui, Fofi era di radicate abitudini vegetariane. E proprio a una formula di Capitini si richiamava per sintetizzare la sua etica intransigente: «Non accetto». Un rifiuto rivolto al potere arbitrario, alle diverse forme di prevaricazione, ma anche alla rassegnazione, alla saggezza spicciola per cui il mondo è sempre andato in un certo modo e non si può pensare di migliorarlo. Al tempo stesso Fofi apprezzava Giuseppe Mazzini e la sua visione etica incentrata sui doveri, che contrapponeva a un primato dei diritti dalle evidenti ricadute individualistiche. Giudicava un inganno l’esaltazione dell’individualità unica e irripetibile, che gli appariva come la scorciatoia verso il trionfo del consumismo.
Accanto al Fofi «militante» (ma non amava quella parola), dotato di un carisma che la barba bianca da profeta biblico non poteva che accentuare, c’era poi il critico tutt’altro che banale, di cui sono testimonianza numerosissime pubblicazioni, a partire dal libro «Cinema italiano. Servi e padroni» (Feltrinelli, 1971). A lui si deve la prima ricognizione approfondita e sofisticata del fenomeno Totò, del suo modo d’intendere l’arte comica, analizzato in tutte le sue innumerevoli ascendenze e sfaccettature con il supporto della compagna di vita dell’attore napoletano, Franca Faldini.
Inoltre Fofi aveva dedicato studi di notevole interesse anche ad altre figure di spicco del cinema, da Alberto Sordi a Marlon Brando. Con il regista Mario Monicelli aveva realizzato una lunga conversazione raccolta in Dvd nel 2011. Con il tempo l’atteggiamento di Fofi verso la società italiana si era fatto molto pessimistico. Disistimava gran parte degli intellettuali e la classe dirigente in blocco. Tuttavia non aveva mai rinunciato all’impegno civile. Del resto, ammoniva, «si fa sempre politica, anche quando la si rifiuta». Non più giovane, era pronto a intraprendere sempre nuove iniziative, mosso da un ammirevole volontarismo utopistico: «Si ha una vita sola a disposizione, non dimentichiamocene mai, e quello che puoi fare e sentire di bello lo devi fare e sentire ora, non devi rinviarlo al domani».
11 luglio 2025 (modifica il 11 luglio 2025 | 08:30)
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11 luglio 2025 (modifica il 11 luglio 2025 | 08:30)
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