
10 luglio 2005. A trentaquattro anni da Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971) di Mel Stuart con Gene Wilder (e diciotto anni prima del nuovo Wonka di Paul King con Timothée Chalamet), Tim Burton presenta a Hollywood in anteprima mondiale La fabbrica di cioccolato/Charlie and the Chocolate Factory, sua personalissima versione del romanzo omonimo di Roald Dahl.
Doveva arrivarci, prima o poi. La materia fiabesca camp e dai sottotesti inquietanti, il gusto per l’anomalia, l’ossessione per l’infanzia perduta, la fascinazione per mondi chiusi e autoregolati da regole arbitrarie: tutti elementi in qualche misura “obbligatori” su cui misurare la sua sensibilità e il suo sguardo gothic-pop.
Se in Edward mani di forbice/Edward Scissorhands (1990) il protagonista Johnny Depp era una creatura isolata e dolente, qui Wonka (ancora Depp, ben più che un attore feticcio: un vero e proprio alter ego poetico) è un creatore; ma condivide con Edward l’estraneità al mondo e un passato doloroso, esprimendo la diversità in forma più barocca e teatrale.
Nella storia, il piccolo Charlie Bucket (Freddie Highmore) vive in una misera casupola insieme alla famiglia. Quando il misterioso Willy Wonka, recluso da anni nella sua fabbrica di cioccolato, lancia un concorso con cinque biglietti d’oro nascosti in altrettante barrette, il destino gliene fa trovare uno. I cinque “fortunati” (si fa per dire), accompagnati dai genitori, entrano così nel magico stabilimento dove, tra meraviglie e trappole, vengono messi alla prova. I più capricciosi vengono eliminati uno dopo l’altro da meccanismi simbolici; e Charlie, onesto e gentile, resta l’ultimo. Wonka gli offre la fabbrica, ma a condizione di separarsi dalla famiglia: e Charlie rifiuta. Solo quando Wonka, affrontando il trauma del padre che l’aveva privato da bambino di ogni dolcezza, riuscirà a riconciliarsi col suo passato, i due potranno condividere una nuova visione del mondo.
Sceneggiato da John August (che aveva già scritto Big Fish – Le storie di una vita incredibile, 2003, ovvero il massimo capolavoro del regista), il film è fedele a Dahl, ma si emancipa dal rischio “paradisneyano” per affogare in una favola nera dove il surreale si mixa al perturbante anche grazie alle sublimi scenografie (di Alex McDowell) che alternano spazi freddi e meccanizzati (come l’esterno industriale della fabbrica) a non-luoghi che paiono distorsioni fluo da LSD (foreste con alberi di zucchero filato, fiumi di cioccolato, ascensori trasparenti in grado di spostarsi in ogni direzione e ambienti dai colori acidi: la fotografia è di un maestro, Philippe Rousselot).
Nel cuore del film pulsa però una sorta di autoriflessione psicoanalitica quasi da manuale. La fabbrica non è soltanto un “parco giochi”: è un teatro di giudizio dove i bambini non soccombono per caso, ma perché incapaci di autocontrollo, empatia o riflessione. Wonka non li punisce direttamente: osserva solo con sadico distacco l’interrompersi anticipato della rovina che li avrebbe attesi da adulti. Se in Dahl questa “crudeltà” era temperata da ironia, Burton la carica invece di ambiguità psicologica: il “suo” Wonka dai denti irreali e bianchissimi (c’è un perché) è un adulto traumatizzato che esercita potere per non affrontare il dolore.
In questo senso, la sua figura sembra combaciare con la personalità del regista. Anche Burton costruisce mondi chiusi, artificiali, governati da regole proprie, dove l’eccentricità diventa rifugio e il controllo estetico un modo per contenere la disgregazione emotiva; e, come il personaggio, ha a lungo evitato il confronto diretto con la realtà preferendole l’artificio e creando passo dopo passo un universo simbolico dove la sofferenza si è sublimata in visione e il dolore personale è diventato spettacolo. Caratteristiche che qui trovano un apice con la cui eco la produzione successiva di Burton si è ritrovata spesso a fare i conti. Johnny Depp costruisce un Wonka radicalmente diverso da quello di Wilder: più spettrale e nevrotico, da depressione post-traumatica, con dizione affettata, tic, postura rigida, sguardi sfuggenti.
Un soggetto scisso, a metà tra il Michael Jackson del crollo post-Bad e un sadico dandy vittoriano, che Depp, contenendo per quanto può l’istrionismo, dota a livello di suggestione di una psicologia infantile ferita. I servili Oompa Loompa (nell’originale impersonati da nani in costume) qui assumono un’identità totalmente diversa: sono tutti interpretati dall’attore Deep Roy moltiplicato all’infinito dal digitale. Questa scelta enfatizza il carattere grottesco e coreografico delle loro apparizioni, trasformando ogni squarcio musicale (la bellissima colonna sonora è del fido Danny Elfman) in un numero ipnotico e meccanizzato con coreografie alla Busby Berkeley filtrate da un senso di minaccia. E l’omologazione delle loro identità aggiunge un elemento inquietante: sono replicanti, cloni, strumenti senz’anima e promanazioni evidenti del “sistema” mentale wonkiano.
Benché all’epoca accolto con diffidenza, La fabbrica di cioccolato rappresenta uno dei vertici più riusciti della sintesi burtoniana tra l’immaginario infantile e l’inquietudine adulta. Ed è nel piccolo Charlie che si nasconde la sua idea più semplice (forse troppo) ma anche più struggente: soltanto attraverso l’amore familiare, il perdono e la gentilezza è possibile, alla fine, varcare la soglia della fabbrica dei sogni (ossia, guarda un po’, signore e signori: il Cinema) senza diventarne prigionieri o, peggio, vittime.
10 luglio 2025
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