DAL NOSTRO INVIATO AL SANTUARIO PELAGOS
Il primo «blow» arriva dopo circa 30 miglia di navigazione. La costa di Sanremo è ormai lontana, quasi invisibile, celata da una nuvola lattiginosa di foschia e calore nella settimana da bollino rosso e da allarme arancione annunciata come la più calda della stagione. Davanti alla prua della motorsailer Pelagos si estende solo il blu nelle sue cinquanta sfumature, con le creste delle onde appena infrante dal vento, che lasciano scivolare verso il ventre un lieve sbrilluccichìo bianco, amplificato dal sole di mezzogiorno. Tra chiarori e riflessi la vista sull’orizzonte si confonde, ma l’occhio allenato di Caterina Lanfredi, biologa marina e vicedirettore del progetto Cetacean Sanctuary Research (Csr) dell’Istituto Tethys, che dal 2000 monitora la presenza e lo stato di salute dei cetacei in questo grande spicchio di mare trasformato in «santuario», scova subito quella impercettibile variazione cromatica che indica la presenza di balene. Uno spruzzo in mezzo al mare, niente di più. Invisibile per molti, anche attraverso le lenti del binocolo. Ma tanto basta per indicare via radio la rotta al comandante, Roberto Ranieri, una vita al timone e l’occhio esperto del lupo di mare, che in pochi minuti porta i 21 metri della sua barca in zona osservazione e spegne i motori planando in silenzio verso un punto che ha ben chiaro nella sua mente.
A quel punto non servono altri spruzzi per orientarsi. Le balenottere comuni, che si chiamano così ma comuni non lo sono affatto e sono classificate «in pericolo» nella lista rossa Iucn dei vertebrati italiani, salgono in superficie e si manifestano in tutto il loro splendore. Tocca passare al plurale, perché in questa radura blu situata in acque pelagiche l’incontro più che un rendez-vous si rivela essere un party, con ben cinque esemplari che si sparpagliano nei dintorni dello scafo. Due di loro si esibiscono anche nel breaching, il classico tuffo che sembra un salto fuori dall’acqua. E quando il sole colpisce di traverso l’ennesimo blow, sembra che dal capo dell’animale parta una fontana di luce, come fuoco artificiale.

«Si spostano insieme e mangiano insieme – annota Caterina, mentre dà istruzioni al resto del team già intento a fotosegnalare gli esemplari in emersione, registrando al tempo stesso dimensioni, caratteristiche fisiche e frequenza del respiro -. Questa è una zona di nutrimento per loro. Fino a qualche anno fa avremmo parlato del Mar Ligure come del ristorante e della palestra dei maschi di balena, soprattutto di capodoglio, che arrivavano qui proprio per nutrirsi e rafforzarsi, prima di tornare più vigorosi nelle zone di riproduzione, dove le femmine li attendono». Ma da qualche tempo anche questa certezza è venuta meno. Il cambiamento climatico ha fatto alzare le temperature dell’acqua e ormai da alcuni anni capita di trovare anche a queste latitudini gruppi famigliari con femmine e cuccioli.
Intanto si alza in volo anche il drone manovrato da Emanuele Lodigiani, che inizia a riprendere la scena più da vicino, ma sempre alla giusta distanza, attento a non disturbare gli animali. Altri scatti partono dal ponte della Pelagos, dove la crew ha già imbracciato fotocamere con teleobiettivi professionali che sembrano piccoli cannoni e catturano scatti ad altissima definizione. Le fotografie e i video non sono solo immagini spettacolari da condividere, servono anche e soprattutto per individuare e classificare i singoli individui. Alcuni sono «vecchi amici» degli scienziati e si riconoscono dai loro i segni particolari nella colorazione, nella distanza delle macchie, nelle striature. Ma anche, purtroppo, per ferite e cicatrici che portano addosso, sulle pinne, sulla coda o sul resto del corpo. Il gruppo di cinque balenottere non sarà l’unico avvistamento della settimana. Ci saranno altri esemplari della stessa specie, alcuni solitari. Ma anche tursiopi, stenelle striate, capodogli. E ancora tonnetti, tartarughe, pesci e volatili di vario genere, tra cui la berta, volatile pelagico per antonomasia. I più fortunati, a non non è capitato, incontrano anche i globicefali.
Il Santuario Pelagos – un quadrante racchiuso tra la costa settentrionale della Sardegna e il porto di Tolone a Ovest e il promontorio dell’Argentario a Est, comprendente quindi l’intera Corsica e il mare al largo di Liguria, Toscana, Principato di Monaco e Costa Azzurra – è un’area di particolare interesse ambientale e come tale prevede una serie di tutele. Che non si traducono, però, in regole stringenti. Così, per esempio, le collisioni accidentali tra cetacei e imbarcazioni commerciali o da diporto sono piuttosto frequenti. Capodogli come Atlante o Propeller, due degli esemplari più iconici incontrati fino ad oggi dai ricercatori, portano su di sé i segni degli impatti. Loro quei traumi li hanno superati, si ritrovano solo incisioni rimarginate o code con merlature a zig zag causate dalle eliche dei motori. Ma chissà quanti altri hanno finito invece col soccombere e le loro carcasse sprofondate nell’abisso senza lasciare traccia. Non lo sapremo mai.
Il Mar Ligure è caratterizzato dalla presenza di diversi canyon sottomarini, molto profondi, prosecuzione ideale delle valli che si dipanano dalle prime alture delle Alpi Marittime. Sono proprio questi che attirano balene e delfini, perché il rimescolamento delle acque in profondità fa risalire correnti particolarmente ricche di krill, calamari e altri piccoli pesci che invitano la fauna marina al grande banchetto. Ma si trovano proprio sulla rotta delle navi cargo e portacontainer che fanno tappa a Genova nel lungo viaggio tra la Cina, l’Europa e gli Stati Uniti. Sono l’equivalente di grandi condomini galleggianti adagiati in orizzontale sulla superficie, enormi, pesanti, al cospetto dei quali anche le nostre balenottere comuni, che pure sono il secondo mammifero marino per dimensioni, appaiono decisamente piccole e poco visibili. Eppure sono lunghe 20 metri e pesano fino a 70 tonnellate, proprio come la barca da cui le osserviamo. I marinai delle imbarcazioni commerciali non hanno tempo e probabilmente neppure voglia di occuparsi delle meraviglie del mare. Il loro compito, in una navigazione finalizzata solo a condurre quantità abnormi di merci a basso costo da una parte all’altra del globo, è un altro ed è anche piuttosto ingrato. Ai loro armatori la fauna marina interessa ancora meno e ogni tentativo di porre limiti per tutelarla è solo come una scocciatura (e un costo) in più.
Ma Tethys opera da quasi quarant’anni per la tutela del mare e e delle sue creature – l’istituto venne fondato nel 1986 a Milano – e da circa 30 è qui sul campo, o meglio sull’onda, per censire, catalogare e studiare almeno otto specie diverse tra balene e delfini che popolano l’areale. Alcuni dei quali, per le loro caratteristiche mutate nel corso degli anni, sono diventati endemici e del tutto diversi rispetto agli esemplari delle stesse specie presenti in altri oceani del mondo. Ma proprio per questo diversi tra loro sono stati inseriti tra le specie a rischio dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn): se dovessero scomparire, scomparirebbe qualcosa di unico, non presente altrove. I ricercatori hanno contribuito più volte con i loro studi e le loro dati a fornire all’Iucn gli elementi necessari per stilare la lista rossa delle specie invertebrate del Mediterraneo.
La ricerca prevede attività di diverso genere. Intanto il monitoraggio de visu, che avviene anche con il contributo di molti volontari che partecipano alle uscite di osservazione e di identificazione a bordo della Pelagos. Fanno turni di una settimana e in navigazione diventano a tutti gli effetti membri del team e dell’equipaggio, alternandosi ai binocoli ma anche nelle incombenze di gestione della barca. Nei giorni scorsi ci siamo imbarcati anche noi e abbiamo visto da vicino come persone che nella vita fanno tutt’altro possano dare alla ricerca un contributo enorme. Il 25% di tutte le osservazioni registrate nel periodo estivo è opera proprio di questi scienziati volontari. L’areale da controllare è molto vasto e ogni giorno la barca esce ad ispezionare quadranti diversi. Non è una crociera di whale watching, come ne vengono ormai organizzate anche da queste parti. Le persone non pagano per avere la certezza di vedere balene o delfini. Scelgono piuttosto di essere protagoniste di un programma di conservazione.
Lo ha fatto Axel, arrivato da Costanza, in Germania: una carriera da manager in aziende metallurgiche, ha deciso ad un certo punto della sua vita di trasferirsi sul lago al confine con Svizzera e Austria per vivere ad un ritmo diverso assieme alla moglie, ora che i figli sono grandi e percorrono al loro strada. Ma anche Gioia, una vita da informatica in una grande multinazionale dopo gli studi in Fisica, che da tempo si dedica al volontariato a favore degli animali con la Lav, di cui è stata anche responsabile della sezione milanese. O Sara, che ha solo 17 anni, ed è alla sua seconda esperienza. Dopo il liceo scientifico intende affrontare studi nel campo naturalistico, anche se deve scegliere ancora la specializzazione. Lei gioca un po’ in casa, vivendo a Vallecrosia, e proprio nelle settimane scorse ha dimostrato cosa possa essere davvero la citizen science, la ricerca scientifica condotta con la collaborazione dei cittadini: mentre era al largo in barca con il padre, durante una «normale» uscita famigliare, si è imbattuta in un capodoglio. Non ci ha pensato due volte: ha calato la sua GoPro in acqua e lo ha ripreso a breve distanza in un video che poi ha consegnato a Tethys. A cui ha fornito anche qualcosa in più: dei campioni di feci rilasciate dall’animale affinché fossero analizzate e catalogate nell’ambito di uno dei tanti progetti portati avanti dall’Istituto, che oltre a raccogliere dati sulla qualità delle acque e degli organismi ingeriti sta cercando di verificare quanto i cetacei siano efficaci anche nello stoccaggio del carbonio, tema attualissimo in tempi di gas serra fuori controllo. Anche durante le uscite della Pelagos viene effettuata la raccolta delle deiezioni, che vengono puntualmente analizzate e catalogate. Ne servono molte per avere evidenze statistiche significative.
Dalla poppa dell’imbarcazione, durante l’intera nagivazione, si dipana un cavo in teflon lungo 200 metri a cui è agganciato un idrofono, che permette di ascoltare i «clic» e i vocalizzi di balene e delfini, consentendo allo staff di determinare di volta in volta la rotta da seguire. Alcuni di questi suoni, come quelli emessi dai capodogli, arrivano da grandi distanze e non è detto che si riesca a stabilire con esattezza la loro provenienza, se non una generica direzione. E, ancor di più, non è detto che l’imbarcazione arrivi in loco trovandoceli ancora. «Ma noi non utilizziamo altri metodi invasivi come per esempio i sonar – precisa ancora Loffredi -. Tutto quello che facciamo è in funzione degli animali e cerchiamo di essere il più discreti possibile». Le rilevazioni durano pochi minuti poi, se anche gli animali restano «a disposizione», la Pelagos cambia rotta e se ne va. Non li vogliono disturbare più del necessario. La strumentazione di bordo registra però altre forme di disturbo. Suoni e rumori provocati dalle grandi imbarcazioni e, a volte, da sonar militari. Una tempesta uditiva devastante per i cetacei, che rende loro più problematico anche l’orientamento.
Ad affiancare Caterina, nei giorni in cui siamo a bordo, ci sono anche Alessandro, Tiberio e Chiara. Nessuno di loro supera i 25 anni, ma tutti hanno già grande esperienza di mare e di cetacei. Hanno studiato biologia o scienze zoologiche, hanno preparato tesi sulla fauna marina – Tiberio per esempio si è occupato di globicefali, delfini stupendi che qui vivono in pace ma che molti hanno sentito nominare per il massacro che ogni anno ne viene fatto ogni anno alle isole Far Oer nell’ambito di un anacronistico rito iniziatico -, si preparano ad affrontare nuovi master e nel frattempo collezionano esperienze dirette come quelle sulla Pelagos (Alessandro, il veterano, è alla sua quinta partecipazione, prima come appassionato e da tre anni come membro dello staff) o in altri mari in progetti analoghi (come ha fatto Chiara, arrivata in Liguria reduce da un progetto analogo in Grecia). Perché il mare è la nuova frontiera dell’ecologia e della conservazione, come spiegano anche due divulgatori d’eccezione come Jeremy Rifkin e David Attemborough che agli oceani hanno dedicato i loro ultimi lavori. È qui che si capisce dove stiamo davvero andando, nel bene e nel male.
La costa cementificata della Liguria, con le spiagge ricoperte di stabilimenti e ombrelloni, è lontana. Ma i segni della (in)civiltà arrivano anche al largo. Il binocolo si muove alla ricerca di pinne e di spruzzi che indichino la presenza degli delfini o balene, ma troppo spesso si imbatte in oggetti di plastica, cartoni, lattine. Perfino salvagenti a forma di unicorno, arrivati fin qui dalla spiaggia o caduti da qualche yacht. Nel cuore del santuario ci si aspetterebbe tutt’altro. Anche perché, per quanto non si vedano a occhio nudo, nell’acqua sono presenti anche quantità enormi di microplastiche. Che vengono ingerite dai pesci e che per l’effetto del bioaccumulo passano da quelli più piccoli a quelli più grandi, e infine alle nostre tavole, in quantità sempre maggiori.
Eppure spostando di poco lo sguardo e guardando verso il fondo l’occhio si imbatte solo nel blu profondo. È difficile, osservandolo da qui, nel silenzio scalfito solo da un tenue sciabordio delle onde sullo scafo, pensare che il gigante azzurro sia malato. Ma basta tuffarsi – lontano dagli animali perché è vietato farlo in loro presenza – per scoprire che anche a 60 km in linea d’aria dalla terra ferma e con una colonna di mare di più di due sotto, la superficie tocca temperature da piscina di città. Lo dice la pelle, ma lo dicono anche le sonde calate in acqua, che arrivano a registrare i 30 gradi nel primo strato. Il cambiamento climatico forse non sempre si vede, ma si sente eccome.
E lo sentono anche gli animali. Eppure il Santuario Pelagos resta uno scrigno di biodiversità unico al mondo. Non ci sono altri luoghi dove tante specie marine si concentrano in un’area che è al tempo stesso iper frequentata e interessata dalle attività umane. Traghetti di linea che puntano verso Corsica e Sardegna, centinaia di navi cargo e porta container ogni settimana, motonavi turistiche, yacht e imbarcazioni più piccole di diportisti. Tutti insieme, appassionatamente e soprattutto senza grandi regole. Ne basterebbero poche per tutelare al meglio la biodiversità di quest’area. Per esempio la riduzione della velocità per evitare le collisioni accidentali: da un paio d’anni è consigliato di non superare i 10 nodi ma, appunto, si tratta solo di un consiglio e le attività commerciali dei consigli tendono a non sapere cosa farsene: il tempo è denaro e prima si arriva meglio è. Oppure la modifica delle rotte, per evitare il passaggio sopra ai canyon. Ma anche in questo caso vale quanto detto: girare attorno ad un’area significa aumentare la distanza e quindi i costi, per cui i cetacei si arrangino.
Nelle settimane scorse, a margine della Conferenza sugli Oceani di Nizza, il principe Alberto di Monaco ha tenuto a battesimo il Consorzio Pelagos, un organismo internazionale che raccoglie associazioni scientifiche e ambientaliste (per l’Italia ci sono anche il Wwf e l’Area marina protetta di Portofino) ma anche enti e istituzioni di Francia, Italia e Principato, per elaborare strategie e chiedere ai decisori politici norme più stringenti per la salvaguardia di questo mare e delle sue creature. Tethys, a cui si deve tra l’altro la proposta originaria di istituzione del santuario nel 1990, ne è capofila. «Non sarà semplice mettere d’accordo tutti – spiega Sabina Airoldi, biologa marina, veterana dell’Istituto e direttrice fin dall’inizio del progetto di ricerca sui cetacei, che già aveva avuto un prologo in una forma leggermente diversa negli anni precedenti – . Ma quando siamo partiti la scommessa era ancora più azzardata. Nessuno a quei tempi si interessava davvero delle sorti dell’ambiente. Nessuno avrebbe creduto, allora, che saremmo riusciti ad arrivare fino a qui». E invece.
8 luglio 2025 ( modifica il 8 luglio 2025 | 13:03)
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