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Andrea Bajani dopo lo Strega: «Il patriarcato è ancora vivo. I romanzi? Misteriosi come chi li scrive»

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Roma. Esterno 1. Nel giardino del Ninfeo di Villa Giulia. Subito dopo aver ricevuto il Premio Strega 2025 per il suo L’anniversario (Feltrinelli). «La letteratura è contestare la versione ufficiale», commenta Andrea Bajani sotto al tabellone delle votazioni. «Mi sembra che la versione ufficiale oggi continui a essere troppo spesso una versione patriarcale. Con L’anniversario quello che volevo raccontare era anche la necessità di contestare quel sistema oppressivo da parte dei maschi». Interno 2. Il giorno dopo lo scrittore che ha vinto il riconoscimento letterario più ambito si racconta nei saloni della American Academy, sulla collina del Gianicolo. «La mia seconda vita è cominciata qui. Nel 2017 ebbi il primo incarico da borsista nel 2020 mi sono trasferito negli Usa. Quattro anni fa ho preso servizio alla Rice University. Scrivo da 23 anni, e questi anni – così come i tanti autori che ho letto – mi hanno insegnato, lo ribadisco, che il compito di chi fa letteratura è e continua ad essere quello di contestare la versione ufficiale. Lo spiego sempre ai miei studenti».

Bajani è un italiano che – come il protagonista del romanzo (ma le analogie si fermano qui) – ha scelto di traslocare oltreoceano per insegnare letteratura all’Università di Houston, Texas. Nato a Roma nel 1975, ha esordito nel 2002 con il romanzo Morto un papa, cui sono seguiti altri 13 libri, alcuni dei quali premiati in altri concorsi letterari. Ma è anche autore di versi e non manca mai di sottolineare la sua passione per la poesia: con la raccolta Dimora naturale (2020) è stato finalista al Premio Viareggio-Rèpaci 2021. Qui all’American Academy la sua vita ha avuto una svolta. Qui ha incontrato la sua futura moglie, qui si è innamorato e qui ha maturato la scelta di dare andar via dall’Italia, ad oltre 9 mila chilometri di distanza, per metter su casa «a due passi dal Golfo del Messico».

Perché questa sottolineatura immediata, dopo il Premio, della necessità di contestare la versione ufficiale?

«Ho notato che nessuno dei miei studenti negli Usa provava a fare una cosa: nessuno cercava di mettere in discussione il sistema; quindi nessuno provava a raccontare la famiglia (e dunque anche il contesto sociale in cui questa è immersa) da fuori. Invece è proprio nel mettere in discussione la realtà che ci si pone nelle condizioni di emergere da situazioni familiari e politiche che possono diventare una prigione».

Come è nata l’idea di dar vita a una storia, «L’anniversario», che scava nei problemi di una famiglia trasferitasi da Roma al profondo Nord, in un paesino della provincia piemontese?

«Tutto è scaturito proprio dal mio lavoro all’Università di Houston. La famiglia è talmente un casino che la letteratura da sempre la racconta. Per questo nel corso Writing the family, scrivere della famiglia, porto gli studenti a confrontarsi con un tabù. Un tabù che infrango nel libro. È stato quello il punto di partenza. In genere della famiglia non si può parlare male. Tutto deve restare celato tra le mura. Dopo una lezione, ricordo che sono uscito dalla classe, sono andato a casa e ho scritto di getto la scena della separazione con cui inizia la storia de L’anniversario».

E poi come è arrivato alla versione finale, quella che ha vinto lo Strega 2025?

«Questo romanzo ebbe una prima fuoriuscita come un’eruzione, lo scrissi in venti giorni. Poiha avuto una gestazione di 3 anni;
passando da una prima versione di 80 pagine a una che ne aveva 200. Tutto il resto è stato togliere, togliere e lasciare l’essenziale. Dopo un anno dalla prima stesura consegnai il libro all’editore, ma sapevo che avevo bisogno di altri due anni per sciogliere dei nodi. I romanzi hanno gestazioni sempre un po’ misteriose come chi le scrive: siamo misteriosi a noi stessi. E dunque ci sono romanzi che escono in maniera fluviale e altri che per ragioni interiori hanno elaborazioni lunghissime».

È sbagliato sostenere che L’anniversario sia autobiografico come lasciano intendere alcune recensioni?

«Non è una storia autobiografica. Le date del distacco del protagonista nemmeno coincidono con le mie tanto per cominciare. Come lettore mi possono interessare i biopic, ma come scrittore non mi attraggono minimamente. Quel che mi interessa è quello che non so. E poi la condizione dell’autobiografia è una condizione secondo cui uno dà per scontato che la propria vita sia interessante per qualcuno. La condizione del romanzo è invece quella di dare per scontato che c’è un mondo che non riguarda altri se non il lettore o la lettrice. Il romanzo (lo scrivo in maniera chiara nel libro) si disinteressa di ciò che è reale ma si interessa di ciò che è vero per la condizione umana. Il romanzo come genere, a differenza dell’autobiografia, ci aiuta a trovare le cose che non si sanno: questa è una differenza profondissima. Parte con un qualcosa di conosciuto e mira a trovare qualcosa di sconosciuto. Il romanzo è un genere che produce conoscenza. Che produce memoria, produce fatti. Non è un caso che tanti che han letto il libro arrivino a dirmi, ciascuno per quel che riguarda la loro vita: “questa è la mia storia”. Perché questa è la storia di loro come lettori».

Lei sembra sottolineare che spesso capire dall’esterno quello che succede dentro le case è impossibile, perché le famiglie sono un sistema a tenuta stagna…

«È così. Qualsiasi sia la famiglia – tragica, drammatica, funzionale, disfunzionale, mettete voi l’aggettivo – è una specie di destino: mentre tutti gli altri legami sono soggetti alle scelte dei singoli, la famiglia sta dentro il regno del sangue, sta fuori dalla legge, ha una morale a sé stante. E quando un sistema come quello di alcune famiglie diventa un sistema chiuso, regolato solo dalla legge arcaica del padre padrone, deve restare tutto lì dentro. Allora si creano piccoli sistemi totalitari. Si viene sigillati dentro le mura di casa. Riflettiamo. Noi consideriamo – e in questo la legge ci sostiene – che le persone abbiano diritto di interrompere il lavoro, un matrimonio, un’amicizia se non funzionano, se non fanno sentire al sicuro, se innescano violenza… ma altrettanto non vale per la famiglia. È vero che all’inizio, ogni volta un legame è un mondo chiuso: due innamorati costruiscono una bolla totalmente impermeabile al mondo esterno. Ma i legami sono tanto più funzionanti quanto più esiste un sistema di traspirazione, di aria scambiata tra interno e esterno. Significa che il rapporto può sopravvivere e crescere in un ambiente in cui circola il mondo esterno».

La famiglia che si autoisola è dunque destinata al fallimento…

«Quando qualsiasi sistema – dal piccolo (la famiglia) al grande (la dittatura) – ha come unica modalità per sopravvivere di chiudersi all’esterno, allora prima o poi si possono innescare processi di fuga».

Che genere di famiglie emergono dal suo confronto con gli studenti dell’Università di Houston?

«Ho studenti e studentesse che arrivano con un carico e idee di storie sempre piuttosto drammatiche. L’America vive un momento difficile e le storie che questi ragazzi e ragazze portavano in classe mi mostravano delle persone intrappolate dentro un labirinto. A volte schiacciate da tragedie come quelle dei veterani di guerra che tengono in scacco interi nuclei familiari. La percezione era che venissero raccontate come se quelle sofferenze, quelle vite rappresentassero un destino. Era come se si vedessero come dei minotauri intrappolati nel labirinto delle famiglie».

Come affronta tanto dolore, rassegnazione, tutte quelle prospettive congelate?

«Credo che il mio lavoro come docente, la cosa fondamentale che faccio, sia essere un po’ la loro Arianna, tendere il filo per farli uscire dal labirinto, spiegare loro che l’unica soluzione è trovare uno storia da portare fuori, non da tenere dentro. Da raccontare, da scrivere. Per stimolare la trasformazione del dolore, contestando la versione familiare. Si potrebbe farci qualcosa di positivo con quei traumi, intendo politicamente parlando, ed è la ragione per cui peraltro la scrittura è costruzione. Quindi, quali che siano le nuove generazioni, chiunque si metta a scrivere un libro, provi a scrivere un libro, è un’ottimista. Cioè è uno che crede che ci possa essere un futuro e che quel futuro possa essere sufficiente a contenere la storia che si sta scrivendo».

Quella del suo libro è invece una famiglia italiana che potremmo ascrivere a una migrazione al contrario. In un’ epoca in cui (fine Anni 70), ancora migliaia di italiani lasciavano il Meridione per cercare fortuna nelle grandi città del Centro e Nord, la famiglia protagonista de L’anniversario lascia Roma per andare a vivere in un piccolo paese del Piemonte, isolandosi dalla vita che conosceva prima…

«È quella che io chiamo la roulette della macchina statale, che di generazione in generazione ha spostato vite e destini. Ed è sempre stata una parte della Storia d’Italia. Queste storie sono le storie che trovi in tutti i Paesi del mondo. Rappresentano l’evidenza del fatto che c’è una tendenza migratoria della nostra specie. Ma la verità è che si è sempre parlato poco del peso della macchina statale nei movimenti migratori: una macchina che portava in giro per l’Italia insegnanti, dirigenti pubblici, poliziotti… Sì, certo, c’era la fabbrica, ma c’era anche lo Stato a mescolare le carte delle vite di molti italiani: i giudici, i dirigenti, i tecnici. Il sistema statale fondamentalmente portava a questo tipo di emigrazione, mentre noi abbiamo letto o sentito parlare sempre della storia dell’emigrazione verso la fabbrica. C’era appunto il poliziotto o il carabiniere meridionale che ritrovavi nella provincia di Vicenza, o che arrivava da Napoli e stava in un paesino vicino a Cogne. E c’era il professore di Palermo che finiva in un liceo in Friuli. Questo credo sia uno dei punti fondamentali dello scrivere storie, della letteratura. E anche del contestare: raccontare storie diverse. Perché nel frattempo le versioni uniche della nostra storia si sono calcificate. Sui libri di scuola esiste soltanto quel tipo di migrazione: si va tutti a Mirafiori? No non c’è stato solo questo».

D’altronde l’uomo, inteso come genere umano, come specie, pur essendo considerato stanziale, tende invece al movimento. Per una ragione o per l’altra tende a spostarsi. Sono cambiate anche le migrazioni dei giovani, giusto?

«Sì, e molto. Negli ultimi decenni, la prospettiva di restare stanziali è stata travolta, per i giovani, dalle opportunità offerte da Interrail piuttosto che dal Progetto Erasmus. È lì che l’Europa, forse per la prima volta, è diventata davvero più simile agli Stati Uniti. E quando gli studenti hanno cominciato ad andare in Erasmus, hanno cominciato ad andare nelle università straniere. Hanno cominciato a migrare non solo per divertimento ma per esigenze di crescita intellettuale. La globalizzazione ha portato le persone ad andare verso destini non nazionali. Questa cosa è interessante per chi scrive: ci porta a guardare non solo le statistiche delle fabbriche da un lato e quelle dello Stato che sposta marescialli e burocrati dall’altro».

Torniamo alla famiglia emigrata nel piccolo borgo: lei fa emergere l’assurdità dell’isolamento imposto dal padre… Un padre forse in fuga verso un destino ricostruito, che obbliga tutti a seguirlo: moglie, figlio, figlia…

«È la famiglia come prigione la ragione profonda di questa storia in cui qualcuno (proprio perché si sente bloccato) a un certo punto rivendica il diritto di sottrarsi. Esiste una forma di totalitarismo familiare – una cosa di cui mi sono spesso trovato a parlare nel Tour di incontri con i lettori del Premio Strega – un sistema talmente spaventato del mondo esterno da escluderlo completamente. Finché qualcuno rivendica il diritto di sottrarsi come farebbe in altri sistemi, nel luogo in cui normalmente culturalmente e politicamente si è tenuti a tacere».

C’è poi la constatazione di fondo che comunque partire, ovvero abbandonare quella che può essere una comfort zone (o un’illusione di comfort zone) per affrontare qualcosa di diverso, è uno dei pochi modi di crescere. La sofferenza ti impone di sforzarti, il dolore – quando diventa tanto forte – o ti piega su te stesso o ti spinge a trovare la forza per reagire e quindi per crescere. Non c’è spazio per la felicità se non nella fuga?

«Il mio lavoro ha a che fare con la modalità con cui le persone in maniera un po’ contraddittoria provano a essere felici. Le felicità di ciascuno pesano in un sistema così complesso come quello familiare. Però, non sempre significano la felicità degli altri. Ci sono padri come quello del romanzo, pronti ad esiliare tutti cercando una propria possibile rinascita, che poi in qualche maniera fanno scontare a tutti. C’è la madre che si annulla cercando attraverso il sostegno al progetto impossibile del padre di accontentarlo. C’è Il figlio che per essere felice, o soltanto per sopravvivere, deve fare uno strappo lacerante. C’è la sorella che cerca di capire in che modo essere donna quando si è dentro in sistema in cui la donna è silenziata».

Lei ha dichiarato che esiste ancora «un sistema, supportato e replicato da milioni di famiglie, secondo cui al maschio spetta non solo il dominio sulla famiglia, ma anche la distribuzione dei ruoli, che prevede che il maschio abbia il potere e alla donna spetti l’invisibilità». E il dominio del maschio mette in evidenza, nel romanzo, la figura della madre che sceglie di tacere. Una donna silenziata, appunto: è una figura che proviene dal suo vissuto?

«In realtà la madre del libro è influenzata dalle mie letture: molto di lei viene dal personaggio di un romanzo di Peter Handke, Infelicità senza desideri (1972). Ho cominciato a scrivere il libro e ho pensato di ridarle vita, di dare un nuovo futuro a questo personaggio drammatico che nel libro di Handke poi si suicida. Ora, a distanza di oltre cinquant’anni, può rivivere nelle pagine di un altro romanzo».

Questa donna sembra essere vittima di sé stessa, della propria tendenza a soffocare la sua voglia di libertà in nome della famiglia. Trova respiro in un lavoro al supermercato, ma poi rinuncia… È una vittima del patriarcato in anni in cui il femminismo sembrava iniziare a demolirlo…

«Non è un caso. Esiste ancora culturalmente il sistema patriarcale: cioè una legge non scritta che – in maniera inaccettabile, per quanto mi riguarda – attribuisce a un genere il dominio per privilegio di genere. Un sistema supportato culturalmente, politicamente, per un tempo infinito. È un sistema che prevede che il maschio guidi, che prevede che si usino espressioni sulle donne come “chi porta i pantaloni”. È un sistema che anche linguisticamente ha attribuito alla donna l’invisibilità. Sì, certo, è connotato generazionalmente, ma purtroppo continua a essere ancora vivo».

Segnali di cambiamento?

«Ce ne sono tanti, secondo me. Le nuove generazioni di maschi lavano i pavimenti senza stare a rivendicare che era un compito femminile. Ma non è questione di rispetto tra i tra i generi, tra i sessi. Le nuove generazioni sono diverse. Anche se poi i casi di cronaca ci raccontano realtà drammaticamente antiche: abbiamo visto anche persone molto giovani agire contro le donne. Quindi da un lato c’è la speranza e dall’altro però quello che succede ci fa vedere che sul tema del rispetto (non solo della parità) siamo veramente ancora indietro. Le cronache di violenze familiari poi ci ricordano come il fenomeno delle donne silenziate sia ancora grave. Per questo trovo fondamentale il fatto che nel romanzo l’io narrante sia una voce maschile, che contesti la versione patriarcale e si spinga a rifiutare la modalità patriarcale. Se il rifiuto della versione patriarcale della famiglia non arriva anche dal maschio non si può cambiare».

Il contrario di quanto fa il figlio del romanzo, che chiude una porta, cambia numero di telefono, risponde malvolentieri e distrattamente alle mail dei familiari, per andare verso l’ignoto.
«L’ignoto ci stimola. Non c’è forma di conoscenza che non nasca da ciò che non si sa. Tornando di nuovo alla scrittura, c’è una connessione forte tra l’andare via e lo scrivere, perché in fondo l’unica cosa che si può fare è quella. Ed è interessante notare che spesso vanno di pari passo il viaggiare e la scrittura. Ma il viaggio può avere conseguenze diverse: bisogna vedere cosa si fa dell’esperienza. Se penso ai miei studenti – che arrivano negli Usa dalla Cina, dal Medio Oriente – ma anche agli studenti italiani che vanno all’estero, quanto tutto questo porti a un elemento di crescita è da vedere».

Provare ad andare in un posto che non si conosce equivale a cercare di scoprire quello che non si conosce di sé ?

«Beh, ci sono dei viaggi che sono viaggi reali, nel quali fondamentalmente facciamo il viaggio di crescita, evoluzione personale, il viaggio che porta alla conoscenza (e chi lo fa mette in conto un rischio). E ci sono anche viaggi diversi e controproducenti, come quando il movimento è al contrario, è nel provare a controllare ossessivamente (come fa il padre del romanzo): ma quello non è più il viaggio; si può andare anche a vivere in Bulgaria, in Giappone, in Canada e restare però chiusi. È quel che è accaduto anche in tante migrazioni storiche. Se ci pensate anche nella migrazione degli italiani in America (ma vale per tanti altri Paesi), ovvero lo spostamento di genti che, arrivate in un posto per il desiderio di avere una vita migliore, si riducono ad un atteggiamento conservativo: sono talmente spaventate della vita di fuori da cercare di riprodurre i meccanismi e il contesto che avevano nel Paese di partenza. Condannandosi così a un destino fallimentare. Perché invece il mondo fuori è cambiato. Allora in quel caso quello non è un viaggiare, quello è uno spostamento geografico che non corrisponde al viaggiare».

Oggi le università e in generale il mondo della cultura degli States sono sotto attacco da parte del governo Trump: che sensazione le dà vivere nel Paese delle libertà dove gli spazi di libertà diventano di giorno in giorno più piccoli?

«È come se ci fosse un sentimento di abbandono complessivo. Si intuisce la percezione della fine della politica; dell’inesistenza della politica; dell’ingiustizia della politica. È come se i giovani fossero tutti dentro una sindrome da stress post traumatico. E questo stress, questo clima di sfiducia, naturalmente, colpisce ogni volta nuove generazioni. Questo senso molto forte del trauma e della necessità di provare a non soccombere, pone i ragazzi in una prospettiva molto diversa da quella che un tempo poteva essere una prospettiva di cambiamento profondo (pensiamo alla letteratura e alla musica di rivolta degli anni Sessanta) ed è però nello stesso tempo, un terreno che attrae i sistemi demagogici populisti conservatori. Sistemi che possono dare l’impressione di avere le risposte, le soluzioni: politici che dicono “venite con me, vi salverò io” e disorientano i giovani tagliando la realtà con l’accetta, appoggiandosi su vecchi valori inesistenti, peraltro inventati».

Le tre o quattro generazioni che lei vede in questo momento in America, mostrano una differenza abissale con le generazioni Usa degli Anni 60: allora si protestava… Oggi invece i ragazzi sembrano appiattiti.

«È preoccupante. Se pensiamo agli Stati Uniti, che sono un Paese fatto dagli stranieri, eppure oggi vedono crescere i sentimenti xenofobi, possiamo renderci conto che certi proclami, certe politiche trovano terreno fertile nel malcontento. La destra ci sguazza nelle situazioni di trauma. Il fatto che Trump stia di fatto rendendo dura la vita agli universitari stranieri che studiano negli Usa è foriero di un futuro spaventoso: in un Paese dove il sistema fondativo si basava sulle diversità, sull’apporto di tanti stranieri, tornano a prevalere reciproci pregiudizi molto conservatori. Gli spaventati dalla globalizzazione sono in ricerca di soluzioni facili, come la vecchia soluzione del nemico, identificato con lo straniero. Quello che è più preoccupante per me è il silenzio di gran parte delle forze progressiste negli Stati Uniti. Intanto le nuove generazioni di giovani americani (che già viaggiano poco) cresceranno senza il confronto con gli stranieri se glieli togli dalle università perché scappano o vengono cacciati. Trovo molto pericolosa questa abiura degli statunitensi alle proprie origini».

4 luglio 2025 (modifica il 4 luglio 2025 | 19:02)

4 luglio 2025 (modifica il 4 luglio 2025 | 19:02)

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