
Capire il cervello è un po’ come giocare a scacchi con un campione. Una sfida fatta di mosse piccole, strategiche. Qualcosa che richiede pazienza, ma che sa riservare sorprese. Finora, le evidenze scientifiche ci hanno portato a dividere la storia di questo organo in due grandi fasi: una di massima plasticità, l’infanzia, e una di inesorabile declino, la vecchiaia. Eppure, non è tutto così schematico: i neuroni dell’ippocampo, la «centrale» del cervello afferente al sistema limbico e deputata alla memoria, continuano a formarsi anche in età avanzata. E ora ne abbiamo la conferma. Lo dimostra un nuovo studio guidato dal professor Jonas Frisén del Karolinska Institutet , in Svezia, pubblicato sulla rivista Science.
Una questione dibattuta
Dodici anni fa, il gruppo coordinato da Frisén aveva già chiarito, analizzando i livelli di carbonio-14 incorporati nel DNA cerebrale di alcuni individui esposti indirettamente alle esplosioni nucleari degli Anni ’50, che negli adulti l’ippocampo è in grado di formare nuovi neuroni. La stima, all’epoca, parlava di circa 700 unità al giorno. Un quadro promettente, ma incompleto: mancava il tassello del «come». Cinque anni dopo, i biologi dell’Università della California di San Francisco (Stati Uniti) pubblicarono su Nature una revisione critica: secondo i loro dati, questa crescita sarebbe limitata ai soli individui giovani. «Negli ultimi anni, un crescente numero di studi su modelli animali ha dimostrato non solo che nell’adulto il nostro ippocampo continua a generare nuovi neuroni, ma anche che queste cellule appena nate si integrano attivamente nei circuiti esistenti, influenzando memoria, apprendimento e regolazione emotiva», spiega Marta Paterlini, ricercatrice al Karolinska Institutet e co-prima autrice della pubblicazione.
Memoria ed emozioni
Un dato rilevante emerge dagli esperimenti in cui la neurogenesi viene inibita in modo artificiale (per esempio, tramite radiazioni locali o modificazioni genetiche). I topi privati della possibilità di produrre nuovi neuroni nell’ippocampo mostrano difficoltà nel discriminare ambienti simili (fenomeno noto come pattern separation) e ottengono risultati peggiori nei classici test di memoria spaziale. «Questi deficit suggeriscono che i nuovi neuroni svolgono un ruolo misurabile nell’acquisizione e nel consolidamento delle informazioni» osserva Paterlini. Ma la funzione della neurogenesi va ben oltre la sfera mnestica. «Diversi studi indicano che ha un ruolo cruciale nella regolazione emotiva e nella risposta allo stress. I topi con neurogenesi ridotta mostrano livelli di ansia più elevati e reazioni di stress amplificate» aggiunge la scienziata.
La metodologia di ricerca
In effetti, alcune ricerche hanno riscontrato che l’efficacia degli antidepressivi si riduce se la produzione di nuove cellule nervose viene soppressa. E, si presti attenzione, non si tratta di un fenomeno limitato ai roditori: pure nei mammiferi più grandi stanno emergendo prove analoghe. Secondo i ricercatori, si tratterebbe di un meccanismo conservato: i nuovi neuroni ippocampali contribuiscono in misura importante alla formazione dei ricordi e alla modulazione delle emozioni anche negli esseri umani. Per far luce su questi aspetti – ribaltando una visione di staticità neuronale che accompagna le neuroscienze fin dai tempi del medico spagnolo Santiago Ramón y Cajal (padre della disciplina e insignito del Premio Nobel per la Medicina nel 1906) – Frisén e colleghi hanno analizzato campioni di tessuto cerebrale prelevati da biobanche internazionali e appartenenti a persone di età compresa tra 0 e 78 anni. In otto anni di lavoro, grazie all’impiego di tecniche avanzate – come il sequenziamento dell’RNA a singolo nucleo, la citometria a flusso e il machine learning – sono state identificate le cellule staminali e ne è stata osservata la trasformazione in neuroni immaturi. Una mappatura più precisa, resa possibile da due marcatori genetici altamente specifici (RNAscope e Xenium), ha infine confermato la presenza di queste cellule appena nate in una sede ben definita: il giro dentato, un’area chiave dell’ippocampo coinvolta nella formazione della memoria, nell’apprendimento e nell’elasticità mentale.
Quale futuro per le neuroscienze?
Cosa significa tutto questo per la medicina traslazionale del futuro? «Oltre all’ambito cognitivo, la neurogenesi adulta apre la strada a nuove speranze nella rigenerazione cerebrale» sottolinea Paterlini. «In presenza di traumi o malattie che danneggiano i circuiti neurali, la capacità del cervello di generare nuovi neuroni potrebbe rappresentare una risorsa per rimpiazzare le cellule perse o ripristinare connessioni compromesse». Non solo: studi su modelli animali mostrano che fattori legati allo stile di vita – come l’attività fisica, ambienti stimolanti e alcuni farmaci, tra cui gli antidepressivi – possono stimolare la produzione di nuove cellule. Un segnale da cogliere: potremmo favorire attivamente la nostra neuroplasticità perfino in età avanzata, rafforzando così la resilienza contro il declino cognitivo e i disturbi del tono dell’umore. L’idea che il cervello umano sappia reinventarsi col passare del tempo affascina la comunità scientifica. «Il semplice fatto che il nostro cervello adulto possa generare nuovi neuroni cambia radicalmente il nostro modo di vedere l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, il recupero da lesioni e il potenziale inespresso della plasticità neuronale». Una partita a scacchi, dicevamo all’inizio. E la prossima mossa, tra laboratorio e clinica, potrebbe valere lo scacco matto.
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Riferimenti: “Identification of proliferating neural progenitors in the adult human hippocampus”, Ionut Dumitru, Marta Paterlini, Margherita Zamboni, Christoph Ziegenhain, Sarantis Giatrellis, Rasool Saghaleyni, Åsa Björklund, Kanar Alkass, Mathew Tata, Henrik Druid, Rickard Sandberg, Jonas Frisén, Science, online 3/07/2025, doi: 10.1126/science.adu9575.
4 luglio 2025
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