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Amori, ripicche e liti politiche: da Sangiuliano a Giuli, l’anno «psichedelico» al Ministero della Cultura

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Al ministero della Cultura, giusto un anno fa, eravamo nel pieno di una strepitosa storia d’amore esplosa tra il ministro dell’epoca Gennaro Sangiuliano (poi diventato per le cronache Genny Delon e, in seguito, dopo le dimissioni, un ottimo corrispondete della Rai da Parigi) e una biondona di Pompei che l’aveva fatto scapocciare con seducenti promesse e volgari ricatti, graffi profondi al cuore e sulla zucca pelata, subito ricucita: a ripensarci, una vicenda molto triste, ma anche molto umana, tutta dentro certe note fragilità maschili, a una distanza lunare da ciò che invece accade adesso lì nei corridoi del Collegio Romano, con il ministro Alessandro Giuli (rito meloniano) che ormai non si parla nemmeno più con la sottosegretaria Lucia Borgonzoni (leghista salviniana) in una sarabanda di psichedeliche polemiche quotidiane e ripicche così tremende, da scatenare il ragionevole sospetto che i due stiano riuscendo nella clamorosa impresa di sostituire la solida e storica egemonia culturale della sinistra con un fantasmagorico luna park situazionista (di destra).

Da via Solferino, propongono: facciamoci una pagina, raccontiamo tutto. Ma come fai? È impossibile dare un senso a certe cronache recenti. Ci si affida agli appunti mentali, gli occhi sono ancora pieni di immagini. Per dire: ecco Giuli che arriva al ministero con il panciotto e il cravattino (adora essere definito un dandy) e addosso un wikipedia sfizioso da ex camerata di Meridiano Zero tra gente che menava, un brutto tatuaggio sul petto («Ma non è, come dicono, un’aquila fascista»), una laurea in Filosofia presa in corsa nel gennaio scorso e però già suonatore di flauto e studioso di riti religiosi («M’hanno persino chiesto se mangio il fegato crudo: ma quello lo fanno i salafiti dopo aver squartato gli infedeli»). Giuli, programmi? Allora lui va alla presentazione della rivista La Biennale di Venezia e dice: «Siamo figli del terremoto, ma siamo anche figli dell’acqua, siamo aborigeni perché siamo aberrigeni…». Ci sfotte con le supercazzole. È brillante (paraculo?), colto, e più che presuntuoso, elitario. Scrive un libro per teorizzare un certo gramscismo di destra. Ma il compagno Elio Germano non ci casca. 

Lo ascolta al Quirinale, è la cerimonia che precede la consegna dei David davanti al presidente Sergio Mattarella. «Meno male che, appunto, c’era Mattarella. Perché ho avuto molta difficoltà ad ascoltare Giuli — dichiara, ruvido, l’attore — Il cinema è in crisi. E sentirci dire che va tutto bene…». Miccia, putiferio. Giuli risponde, duramente, a Germano e attacca pure Geppi Cucciari («…è l’unico ministro i cui interventi possono essere ascoltati anche al contrario, e spesso migliorano»). Segue una lettera-appello con decine di firme — da Sorrentino a Moretti, da Zingaretti alla Cortellesi — il cui succo è: il cinema sta morendo, ci sono oltre 160 mila lavoratori del comparto che non riescono a sostenere le proprie famiglie, il governo è in grave ritardo nell’avviare una riforma del «tax credit» (fondamentale forma di sgravio fiscale).

Giuli si convince che, in effetti, sarebbe giusto avviare un confronto con quel mondo di sinistroidi. Ma una mattina apre Libero e si ritrova una lunga intervista della sua sottosegretaria, con delega al Cinema, Borgonzoni. Che, più o meno, lo accusa dei ritardi sui fondi e propone di togliergli il potere di firma. Giuli s’infuria. Lei è lì da otto anni, e tre governi. E la colpa sarebbe mia? Non solo: il ministro sa pure che la sottosegretaria leghista gode d’una diffusa simpatia tra i produttori. È troppo. Così decide di farla fuori dall’incontro previsto con i rappresentanti di categoria (tra cui Claudio Santamaria e Beppe Fiorello). Parapiglia. La faccenda irrompe a Palazzo Chigi. Interviene Matteo Salvini. S’impenna. E la Borgonzoni, alla fine, partecipa al summit.

Una fatica. Giuli, ogni tanto, deve anche andare in Procura per la coda dell’affaire Sangiuliano. Emerge che persino lui ebbe problemi con il suo sottosegretario, Vittorio Sgarbi (al Collegio Romano, gli uscieri si ostinavano a chiamarlo «ministro», lui si muoveva da ministro, e Gennaro schiumava). Stavolta, però, la faccenda è tutta politica. I casini che Giuli ha con il suo capo di gabinetto, Francesco Spano, l’ansia per una puntata di Report che sembrava dovesse svelare chissà cosa, un certo attrito (chiamiamolo attrito) con il potente Fazzolari, che diventa un puma quando entrano nella sua stanza e gli dicono: «Fazzo, guarda che Giuli fa i capricci». Il ministro con i basettoni cammina tra casini roventi (come quando conferma alla guida del museo Egizio di Torino Evelina Christillin, e fa arrabbiare il collega della Difesa, Guido Crosetto, che voleva essere consultato). 

Si sente assediato? Rep scopre che, ogni tanto, va a nascondersi in un nuovo, prestigioso ufficio, a palazzo Altemps. Ed è lì che decide di declassare il teatro La Pergola di Firenze, diretto da Stefano Massini (Renzi: «Attacco politico, Massini non la pensa come lui»). Si sente assediato, sì o no? Il Fatto scopre l’esistenza d’un tipo losco, che va in giro a offrire ai giornalisti ospitate ben retribuite e, poi, suggerisce: «Del ministro parla pure male, l’importante è che lasci stare Lucia». Cioè, la Borgonzoni. Giuli, sentito? Risultato: dimissioni irrevocabili di Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà spa, molto vicina alla sottosegretaria. Una vendetta? Qualcuno le ha ordinato: sparisci?

Sempre a ripensarci: Sangiuliano, in fondo, s’era limitato a dire che Dante era di destra (e che Times Square è a Londra).


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2 luglio 2025 ( modifica il 2 luglio 2025 | 07:33)

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