
C’è un accordo di pace in Africa che dovrebbe rallegrarci, e conquistare visibilità nei nostri notiziari. È quello annunciato venerdì scorso tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. Se viene rispettato, metterà fine a uno dei conflitti di lunga data che tormentano quell’area del continente. Le ragioni per cui la buona notizia ha avuto una risonanza minima o nulla, sono molteplici. Pregiudizi atavici e stereotipi degli occidentali obbligano a parlare dell’Africa solo in termini apocalittici, se accade qualcosa che stona con la narrazione catastrofista, va ignorato. In questo caso poi ci sono troppi protagonisti «cattivi», dall’Amministrazione Trump al Qatar, a cui non si può attribuire un merito. Infine, c’è un legittimo scetticismo, questo sì assai fondato: tra gli accordi annunciati e la pratica sul terreno purtroppo può esserci una grande distanza, come mi conferma un esperto.
Ricordo la notizia, com’è stata divulgata dalle fonti ufficiali, cioè dai governi interessati, più uno scoop del Wall Street Journal che è stato il primo a rivelare il retroscena su terre rare e minerali strategici. Il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo hanno firmato un accordo di pace mediato dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di porre fine a uno dei conflitti più sanguinosi e di aprire alla partecipazione americana lo sfruttamento delle ricchezze minerarie dell’Africa orientale. Venerdì, i due governi di Ruanda e Congo hanno concordato di «cessare immediatamente e incondizionatamente qualsiasi sostegno alle milizie armate» nell’Est del Congo e di lavorare per il loro «disimpegno, disarmo e integrazione». L’accordo, mediato dagli Stati Uniti e dal Qatar e firmato a Washington, prevede una nuova cooperazione tra i due ex nemici, compreso il rispetto dell’integrità territoriale reciproca e il divieto di aggressione lungo il confine comune.
Quel conflitto dura da decenni. Affonda le sue radici nel genocidio ruandese del 1994, durante il quale più di un milione di persone—principalmente tutsi—furono uccise dagli hutu, secondo le Nazioni Unite. Il Ruanda, così come la milizia M23, fino alla vigilia di questo accordo di pace giustificavano le loro azioni di guerra con l’obiettivo di proteggere la popolazione di etnia tutsi del Congo dalle violenze di una milizia avversa: le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda. Quest’ultimo è un gruppo militare affiliato agli hutu, composto da resti dell’ex esercito ruandese fuggito oltre il confine dopo il genocidio. Il Ruanda, che nega di sostenere l’M23, accusava il governo congolese di appoggiare le milizie hutu. Accusa respinta dalle autorità congolesi.
Questo era lo stato dei fatti, tragico, alla vigilia dell’accordo di venerdì. Ora, se l’intesa verrà rispettata, il Ruanda ritirerà le proprie truppe dall’Est del Congo. L’anno scorso aveva inviato più di 4.000 soldati oltre il confine a sostegno dei ribelli dell’M23, secondo le Nazioni Unite. Secondo una indagine dell’Onu le truppe ruandesi erano equipaggiate con armi sofisticate, tra cui missili terra-aria, mortai guidati e armi anticarro. Questo dava all’M23 un vantaggio militare e ha permesso di conquistare le due maggiori città dell’Est del Congo, al centro di aree ricche di minerali. Più di 7.000 persone sono state uccise e oltre mezzo milione sono state sfollate solo quest’anno, nei sanguinosi scontri tra i ribelli dell’M23 e l’esercito congolese (sostenuto quest’ultimo dalle Nazioni Unite).
A seguito di una serie di sconfitte sul campo, il presidente congolese Félix Tshisekedi si è rivolto a Washington per chiedere aiuto. Il Wall Street Journal ha rivelato per primo che Tshisekedi ha offerto opportunità minerarie al Fondo Sovrano degli Stati Uniti, in cambio di un patto di sicurezza per sconfiggere i ribelli dell’M23. Qui si entra sul terreno delicato per cui la notizia fa storcere il naso a molti: dietro l’accordo c’è il ruolo di Trump, del Qatar (noto per le sue tante ambiguità diplomatiche, fu a lungo il rifugio dei capi di Hamas), e c’è la corsa alle risorse naturali strategiche.
Al centro degli appetiti, locali e stranieri, si trova in particolare la miniera di coltan vicino alla città di Rubaya. Il coltan è una terra metallifera da cui si estraggono, con un processo di raffinazione, il niobio e il tantalio, due metalli rari dalle proprietà chimiche simili. Il niobio è utilizzato per migliorare la resistenza di acciai e superleghe, il tantalio nella produzione di condensatori elettronici e dispositivi medici. La vicenda aggiungerebbe un nuovo capitolo nella gara planetaria che vede opposti soprattutto Stati Uniti e Cina. Come si è visto di recente nelle trattative commerciali di Ginevra, uno degli strumenti negoziali più potenti in mano al governo di Pechino, è la minaccia di cessare le forniture all’America (e ai suoi alleati come Europa, Giappone) di minerali strategici e terre rare. La Repubblica Popolare non ha un monopolio «naturale» in queste risorse, che sono diffuse nel mondo intero; però si è conquistata una posizione dominante grazie a una paziente strategia dispiegata negli ultimi decenni. Da una parte le grandi aziende di Stato cinesi hanno acquistato intere miniere oppure diritti di estrazione in altri continenti, dall’Africa all’America latina. D’altra parte, libera dai vincoli e divieti ambientalisti tipici dell’Occidente, la Cina ha concentrato sul proprio territorio i mestieri di raffinazione e lavorazione di minerali e terre rare. Questa dipendenza del mondo intero dalla Cina si è rivelata pericolosa già 15 anni fa, per esempio quando Xi Jinping decise di «castigare» il Giappone, per ragioni politiche, colpendo Tokyo con un embargo sulle forniture di minerali. La pandemia fu un altro momento rivelatore, sulla pericolosa dipendenza dell’Occidente, a cui l’Amministrazione Biden reagì con una nuova strategia di costruzione di filiere per la sicurezza negli approvvigionamenti. In questo senso l’accordo Congo-Ruanda sponsorizzato da Trump si situa nella continuità con l’azione dell’Amministrazione precedente. Può ridurre un po’ la pericolosa dipendenza dalla Cina. E al tempo stesso, si spera, garantire la cessazione di un conflitto sanguinoso.
L’esperto a cui mi rivolgo per capire dubbi e scetticismi, è Mario Giro. Ex viceministro degli Esteri, docente all’università di Perugia, autore di saggi sull’Africa, Giro è responsabile delle relazioni internazionali per la Comunità di Sant’Egidio, che in quel continente ha una presenza antica e radicata. La Comunità di Sant’Egidio fu mediatrice in un altro accordo di pace, quello del Mozambico. Proprio in Congo, un membro della Comunità di Sant’Egidio figura tra le vittime del conflitto (e della corruzione): Floribert Bwana Chui, ucciso nel 2007, beatificato due settimane fa da Leone XIV secondo la volontà del suo predecessore papa Francesco. Giro dà un giudizio «positivo con riserva» sull’accordo Congo-Ruanda raggiunto venerdì con la mediazione americana. L’esponente di Sant’Egidio ha un approccio pragmatico, non lo scandalizza il fatto che dietro ci sia la partita delle terre rare. Che questi minerali siano una ricchezza contesa e concupita, è risaputo: si tratta di capire se serve a finanziare guerre, oppure a costruire le basi per una pace. La prudenza di Giro nel giudicare l’accordo non deriva da pregiudizi sugli sponsor. La sua cautela deriva invece dalla complessità della situazione sul terreno: molto intricata, con una miriade di protagonisti. Qui riassumo con parole mie la sua analisi più dettagliata; in fondo trovate la sua reazione integrale, tra virgolette. L’idea che basti l’accordo fra i due governi congolese e ruandese per disarmare tutte le fazioni che si combattono da molti anni, non lo convince. Gli attori non-governativi, cioè le milizie (la cui veste etnica o ideologica o religiosa a volte è solo una copertura per attività criminali), non obbediscono necessariamente alle direttive che vengono dai governi e dagli eserciti ufficiali, a loro volta assai corrotti. In conclusione: ben venga questo accordo, purché funzioni davvero. Non è chiaro se gli Stati Uniti siano disposti a metterci anche delle risorse militari, per garantire che la pace sia durevole. Sappiamo che la Cina, la Turchia, e soprattutto la Russia, sono presenti in varie zone dell’Africa anche in questa funzione di «security provider», fornitori di sicurezza su invito dei governi locali. In certi casi lo è pure l’America, e lo era spesso la Francia, quest’ultima però di recente si è vista cacciare da molte ex-colonie che hanno optato per ribaltamenti di alleanze.
Mario Giro (Sant’Egidio):
«L’Accordo mediato dagli Usa tra Ruanda e RDC è un fatto molto positivo: non si riusciva più a negoziare da anni. L’accordo verte sulle terre rare ed è giusto che sia così: si tratta del “nervo della guerra” come si dice da quelle parti, cioè non solo e non tanto della causa originaria (molto più complessa; politico-etnica) ma di ciò che ha permesso alla guerra di proseguire per quasi 30 anni. Il Ruanda si è fatto “predatore” di minerali che non possiede ma che esporta: una pratica comune nel mondo frammentato e caotico della globalizzazione (si pensi agli Emirati con l’oro africano) che sfrutta reti illegali o criminali per funzionare. Cosa guadagna il Ruanda dall’accordo? La lavorazione delle terre rare che ora può diventare ufficiale. La parte difficile che resta da gestire è il disarmo delle innumerevoli milizie o gruppi armati (si va dai 100 ai 200) dei due Kivu (nord e sud) e dell’Ituri: chi lo farà? Chi rimetterà ordine in regioni anarchiche da 30 anni? Non sappiamo nemmeno quale è stata la milizia che uccise l’ambasciatore italiano Luca Attanasio… Su questa parte non c’è ancora chiarezza. Certo Kinshasa può far finta di nulla (già non controllava più l’area) e accontentarsi delle royalties che riceverà sulle terre rare (che non riceveva). Per l’M23, alleato di Kigali (si tratta essenzialmente dei tutsi congolesi) l’idea era di unirla all’esercito regolare (FARDC) che però non vuole (lo hanno appena ridetto a Kinshasa) e comunque è molto corrotto da sempre. Potrebbe succedere che gli Usa facilitino con appositi finanziamenti: per disarmare si possono “comprare” le armi. Ma è un lavoro difficilissimo e lungo (che solo l’ONU sa fare, malgrado tutto). Un discorso a parte sono i miliziani creati da Kinshasa negli ultimi anni: i Wazalendo. Costoro difficilmente renderanno le armi perché si tratta di gruppi di autodifesa locali (tipo le autodefensas colombiane) a cui sono state distribuite le armi dal governo, e che si sono rivelati più efficaci delle FARDC. La RDC ha firmato un parallelo accordo di recente con l’Uganda che potrà avere un ruolo stabilizzatore soprattutto in Ituri ma anche nord Kivu. Le truppe ugandesi sono più accette che quelle ruandesi sul territorio della RDC e sono già presenti (in modo più discreto dei ruandesi). La vita a Goma e Bukavu (occupate dall’ M23) è molto difficile: le banche sono chiuse e per far arrivare un po’ di denaro si usano i sistemi via cellulare (per piccole somme) o si va nella vicina Gisenyi in Ruanda. Così Kigali sta “annettendo” de facto l’area».
(Sant’Egidio è presente sia a Goma che a Bukavu. La responsabile si chiama Aline Minani e dirige la scuola di Sant’Egidio che ora è diventata anche un luogo di rifugio e non ha mai smesso di funzionare. È intitolata a Floribert Bwana Chui, il neo beato martire e membro di Sant’Egidio, ucciso nel 2007 a 26 anni per aver fatto distruggere un carico di alimenti avariati ed aver rifiutato la mazzetta. Era il doganiere responsabile per gli alimenti sulla frontiera RDC-Ruanda. La beatificazione si è svolta a Roma il 15 giugno 2015.)
30 giugno 2025, 11:17 – modifica il 30 giugno 2025 | 11:26
© RIPRODUZIONE RISERVATA
30 giugno 2025, 11:17 – modifica il 30 giugno 2025 | 11:26
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