
Le manca il calcio?
«Giocarlo sì, quello in tv meno. Tutti i giorni una partita… ormai è diventato nauseante».
Moreno Torricelli rappresenta il sogno di qualsiasi bambino che inizia a rincorrere un pallone. Oggi ha 55 anni ma quando ne aveva 22 la Juventus lo prese dai dilettanti della Caratese. Faceva il falegname, la mattina dopo si svegliò in serie A. In quattro stagioni vinse tutto, in Italia e nel mondo.
Che fine ha fatto?
«Durante il Covid mi sono rimesso a impregnare i balconi in legno. Quando avevo bisogno di macchinari, chiedevo a Carlo, artigiano da tre generazioni di Lillianes, il piccolo comune da 400 abitanti in Valle d’Aosta in cui mi sono trasferito. “Guarda, sono solo e ho molto lavoro. Perché non vieni a darmi una mano?”, mi ha chiesto dopo la pandemia. Se c’è da montare delle finestre vado».
Perché il falegname?
«Ho iniziato a 13 anni. Non mi piaceva andare a scuola, a differenza di mio fratello Claudio sempre chino sui libri. Volevo guadagnare dei soldini per essere indipendente e nel mio paese il 90% delle aziende erano mobilifici, trovare lavoro non fu difficile».
Per Baggio era Geppetto.
«Estate 1992, era appena arrivato in ritiro dopo il tour in America con la Nazionale. Aveva letto di me sui giornali e mi diede quel soprannome».
Le era appena cambiata la vita.
«Mi ero fatto notare fra i dilettanti e un dirigente mi segnalò a Furino, allora responsabile del settore giovanile della Juventus. Vengo convocato per giocare un’amichevole con loro. Non ricordo niente, solo un temporale fortissimo. A fine partita mi ferma Trapattoni: “Abbiamo tre test in una settimana, prendi ferie e vieni a Torino”. Gli piaccio, parto per la tournée in Giappone, torno e firmo il contratto sul cofano di una macchina. Passo da uno stipendio di due milioni di lire a 80».
Il primo regalo?
«Una Lancia Thema. Ero rimasto senza auto, me la rubarono durante una di quelle amichevoli con la Juve».
Che coppia con Del Piero.
«Arrivò a Torino un anno dopo di me, di lui avevo letto già tanto, era il nuovo fenomeno del calcio italiano. Stavamo spesso insieme, eravamo i più giovani. Veniva a casa mia a mangiare, mia moglie parrucchiera gli tagliava i capelli».
Già, Barbara.
«L’ho conosciuta a 15 anni. Lavorava con mia cugina, un giorno decidono di pranzare insieme. Mentre ero a fare i caffè al bar dei miei genitori, entra mio zio. “Corri a casa, dammi retta”. Monto sulla bici, la vedo. Mi innamoro».
È morta nel 2010 a 40 anni, leucemia.
«La malattia si manifestò poco prima di Natale. Era sempre molto stanca, aveva una febbriciattola costante: “Fra poco andremo in vacanza in montagna e starai meglio, vedrai”, le dicevo. Invece non migliorava. Torniamo a casa, fa gli esami del sangue. La ricoverano subito».
La situazione appare subito grave.
«Dopo tre settimane di test e analisi i medici mi parlano chiaro: “C’è solo il 2% di possibilità di guarigione per ogni anno dal trapianto di midollo”. Non dissi niente, né a lei, né alla sua famiglia e neanche ai nostri tre figli. Non volevo che perdessero la speranza».
E l’ha mai persa?
«In quei casi vai avanti giorno per giorno, non programmi. Per lei il trapianto dopo tre cicli di chemio in cui la malattia non andava mai in remissione fu già come una vittoria. Per un mese e mezzo riuscì a tornare a casa. La riportai in montagna, ma dopo l’ennesimo controllo ci dissero che la malattia era tornata».
Come ha fatto a non dire niente a nessuno?
«Gestire le emozioni fingendo allo stesso tempo che andasse tutto bene è stata la cosa più difficile di un calvario lungo 10 mesi. Ho detto la verità a tutti solo negli ultimi giorni ed è stata una liberazione. Ho pianto solamente lì».
Tre figli, Alessio, Arianna e Aurora: si sono mai arrabbiati per la sua “bugia”?
«Avevano 10, 11 e 16 anni. Non hanno mai saputo la verità, non ho avuto la forza di dirgliela neanche dopo. La leggeranno per la prima volta qui».
Dopo la morte di sua moglie smette col calcio.
«Allenavo il Figline, durante la malattia passare due ore al campo era un sollievo, lì potevo essere me stesso. Ma poi è cambiato tutto. Ricevo un’offerta dal Crotone in serie B, la rifiuto. In quel momento non potevo costringere i miei figli a lasciare casa. La perdita della mamma per loro è stata una mazzata incredibile. La famiglia è donna, l’attenzione e la pazienza che le mamme hanno sono totalmente differenti da quelle degli uomini».
Il calcio le ha fatto vivere una favola, poi il destino si è rifatto con gli interessi.
«La vita ti può dare tutto e far mancare tutto. Te la scegli tu, cerchi di essere la persona migliore possibile ovunque, a casa e a lavoro. Poi però ci sono le malattie e non ci puoi fare niente. Con Barbara ho vissuto 20 anni bellissimi, abbiamo avuto tre figli stupendi, due dei quali mi hanno reso nonno. Poteva durare di più? Certamente. Ma il viaggio è stato bello».
Si è più innamorato?
«Ho una compagna, si chiama Lucia. È stata molto importante, mi ha distolto dalla tragedia, mi ha fatto tornare a stare bene, mi ha riacceso la luce dentro. Quando ti batte il cuore tutto diventa più bello e colorato. Con i miei figli è stata molto delicata. Non era semplice, per loro la mamma resterà solo una».
Ha ancora dei sogni?
«Che figli e nipoti possano stare bene e realizzarsi nella vita. E poi finire l’alpeggio di proprietà di Lucia. Lo sto rimettendo a posto, ho messo giù il parquet, fatto le pareti del bagno e la cucina. Ci sto lavorando da tre anni, se non mi spiccio mi butta fuori di casa».
Continua ad andare nelle scuole?
«Da sette anni faccio parte di “allenarsi per il futuro”, un progetto di orientamento e alternanza scuola-lavoro che coinvolge studenti di diverse età e che cerca di trasmettere loro passione, impegno e responsabilità prendendo spunto dal mondo dello sport».
E cosa consiglia?
«Di cogliere l’attimo, come ho fatto io».
30 giugno 2025 ( modifica il 30 giugno 2025 | 09:27)
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