
Shirin Ebadi, giurista e attivista iraniana, premio Nobel per la Pace del 2003, risponde da Londra.
Che cosa ha pensato ascoltando il discorso della «vittoria» di Ali Khamenei e guardando i funerali di Stato?
«Ho riso. È ridicolo annunciare la vittoria dopo che ti hanno distrutto le milizie all’estero, il programma nucleare e missilistico. L’economia è ai minimi termini. Il dissenso alle stelle. Fanno ridere».
Il cessate il fuoco l’ha sorpresa?
«Mi ha reso felice. Le bombe non hanno ucciso solo gli uomini del regime, ma hanno colpito le infrastrutture delle città e causato vittime civili. Spero che non ci siano più guerre, non c’è mai una buona ragione per farle».
Dall’Iran raccontano che in questi giorni la repressione è molto aumentata.
«Notevolmente. Nelle due settimane di guerra, oltre 1.000 persone sono state arrestate senza alcun capo d’accusa credibile. Imprigionano e impiccano peggio di prima. La situazione delle carceri è infernale. Per esempio, dopo il bombardamento a Evin, si sono rotti vetri, mura e finestre. Con questo pretesto le autorità carcerarie hanno trasferito moltissimi prigionieri politici in altri istituti penitenziari, in situazioni peggiori. Sono tutte forme di repressione».
In queste due settimane ha sperato che si arrivasse alla fine della Repubblica islamica?
«Il cambio di regime deve assolutamente avvenire per volontà della popolazione d’Iran. Non è accettabile che qualcuno pensi a un “regime change” contando sull’aiuto di americani o israeliani. Il popolo non ascolta gli inviti di Donald Trump o di Benjamin Netanyahu: darà la spallata finale quando si sentirà pronto».
L’indebolimento della Repubblica islamica porterà di nuovo centinaia di migliaia di persone nelle strade come abbiamo visto nel 2022 dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini?
«Sono decenni che gli iraniani lottano contro la dittatura cercando di farla cadere. La nostra battaglia non è nuova. Questa guerra dimostra la debolezza degli ayatollah e ovviamente fa sentire la popolazione più forte, nonostante le minacce. Appena gli iraniani riterranno sia il momento giusto di tornare in piazza lo faranno. Quasi il 90 per cento si oppone al regime. Di conseguenza, una dittatura con questa percentuale di dissidenza non può durare a lungo».
Alcuni analisti pensano che la rivoluzione del movimento Donna, Vita, Libertà sia stata importante, ma, essendo pacifica, non abbia avuto la forza di rovesciare la dittatura. Ci sono dei gruppi organizzati interni che possono affiancare future proteste pacifiche?
«Se si parla di gruppi organizzati armati, io sono contro. Armarsi significa “guerra civile” e mi rifiuto di pensare a uno scenario del genere. Gli iraniani sperano in un cambio di regime pacifico, senza morte e distruzione».
Da Teheran raccontano di una lotta interna per la successione.
«Sono in contatto con molti iraniani dentro, tutti raccontano che questa guerra interna va avanti da anni. E gli ultimi eventi hanno esacerbato la competizione. Alcuni sostengono che anche la morte dell’ex presidente Ebrahim Raisi sia sospetta e rientri in questa sorta di conflitto per la successione».
Cosa pensa del programma nucleare?
«Come moltissimi iraniani, sono contro. Si tratta di un’ambizione inutile del potere che ha portato il Paese a pagare un prezzo altissimo. La guerra con Israele è una conseguenza di queste scelte scellerate e, come abbiamo visto, in una notte tutto è andato distrutto, o quasi».
Alcuni iraniani non sono per i negoziati. Dicono che trattare con il regime vuol dire legittimarlo.
«Per quanto riguarda invece i negoziati tra Trump e la Repubblica islamica, credo che sia sempre meglio dialogare. Non vuol dire che funzionerà, dobbiamo vedere a che cosa condurranno. L’alternativa al dialogo può essere soltanto la guerra. Qual è preferibile?».
29 giugno 2025
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