
Quando, appena arrivato alla Casa Bianca, Donald Trump cominciò a varare raffiche di ordini esecutivi presidenziali di assai dubbia legalità, davanti alle reazioni indignate dei progressisti e allo sconcerto di molti moderati, chi minimizzava gli istinti autoritari del leader repubblicano e la loro reale pericolosità invitava ad attendere l’intervento delle corti, ritenuto sufficiente a bloccare gli eccessi. Alcuni giuristi, però, formularono analisi più penetranti, avvertendo: Trump tasta il terreno per capire fin dove può spingersi e fino a che punto i tribunali possono frenarlo. Certi ordini sembrano addirittura provocazioni per creare il caso, fino ad arrivare davanti alla Corte suprema. A quel punto gli basterà qualche sentenza a suo favore per aprire un varco che poi lui sarà abile ad allargare.
È quello che è successo con le sentenze di ieri, le ultime dei giudici costituzionali prima della lunga pausa estiva e non sorprende che il presidente abbia convocato a tempo di record una conferenza stampa concedendosi un altro giro d’onore basato sul giudizio che riconosce ai genitori il diritto di ritirare i loro figli dalle lezioni sulle questioni della sessualità e delle comunità Lgbtq+ se in contrasto con le loro convinzioni religiose e, soprattutto, sulla sentenza che gli consente di rimettere in discussione lo ius soli, il diritto di chi nasce nel territorio degli Stati Uniti a divenire cittadino americano: un diritto riconosciuto dalla Costituzione.
Trump ha già detto che sfrutterà questa sentenza che toglie ai giudici delle corti federali il diritto di pronunciare sentenze valide in tutto il Paese, limitando il loro impatto al caso specifico in discussione anche quando viene leso un diritto valido erga omnes, applicandola anche ad altri casi: vuole smettere di erogare fondi federali alle «sanctuary city», le metropoli tolleranti coi loro immigrati clandestini, e intende penalizzare la ricerca di alloggi per i rifugiati.
Le 5 sentenze di ieri rispecchiano, ancor più che in passato, un modo di operare della Corte suprema che segue le divisioni ideologiche, più che gli argomenti di diritto. Quattro votazioni su cinque hanno visto i sei giudici conservatori schierati contro i tre progressisti. Fa eccezione la sentenza che ha respinto il tentativo di impedire che Obamacare, la riforma sanitaria dell’era Obama, venga usata per coprire le spese di medicina preventiva come le colonscopie e i farmaci per prevenire l’Hiv. Qui tre giudici conservatori si sono uniti ai tre democratici, ma è la quarta volta che la Corte respinge il boicottaggio della medicina preventiva e nelle motivazioni della sentenza il giudice Kavanaugh (uno dei nominati da Trump) afferma che il ministro della Sanità ha il potere di creare task force per la prevenzione, ma anche di rimuovere questi esperti a suo piacimento. Sembra una legittimazione a posteriori della criticatissima scelta di Robert Kennedy Jr che qualche settimana fa ha destituito in blocco i 17 membri della commissione ministeriale sui vaccini, accusati di conflitto d’interessi. Sostituiti con 8 esperti a lui vicini, non sottoposti al vetting necessario per stabilire se sono davvero indipendenti.
Ma il segno vero di questo blocco di sentenze è, come detto, quello dell’ulteriore espansione dei poteri di Trump. Un anno fa la Corte suprema ha reso il presidente invulnerabile stabilendo che non può essere ritenuto penalmente responsabile di nessuno degli atti compiuti mentre è in carica. Con un Congresso nel quale i tanti malumori, anche repubblicani, nei confronti delle decisioni di Trump non si sono mai tradotti in votazioni a lui contrarie, l’unico potere che poteva tenergli testa era quello giudiziario. Impresa ardua, con un ministero della Giustizia «militarizzato» dal presidente e una Corte suprema da lui «plasmata». Vittoria «monumentale», dunque, per Trump. Un po’ meno per la democrazia Usa.
28 giugno 2025
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