
BRUXELLES – Esistono anche dei dazi stupidi: una particolare categoria di acciaio di qualità, che l’Italia produce, per il quale sono necessari dei grandi forni elettrici, è un prodotto che gli americani comprano dalle nostre aziende, anche per il loro mercato militare, per un semplice motivo. La produzione a stelle e strisce dell’acciaio di categoria superiore, con determinate caratteristiche di durezza e resistenza, è pari a zero.
I diplomatici italiani citano questo esempio non per denigrare alcuni punti della guerra commerciale mondiale, e della connessa confusione di numeri e tabelle, dazi e controdazi, minacce e marce indietro, che Trump ha scatenato dal giorno del suo insediamento, ma semplicemente per dire che la materia è così complessa che anche agli stessi americani sono sfuggite e sfuggono dettagli macroscopici.
I nostri diplomatici, tutti, lavorano in primo luogo per l’Italia e i suoi interessi, e questo significa che le convinzioni e le alleanze, le relazioni e gli obiettivi, di Giorgia Meloni sono la bussola che li guida. Se tre giorni fa, a margine dei lavori del vertice Nato, la presidente del Consiglio ha detto in pubblico che metterebbe la firma su dazi generici al 10%, anche unilaterali da parte di Washington, come i primi imposti dal capo della Casa Bianca, c’è un motivo ben preciso: dalla conversazioni dirette con il suo amico Donald si è convinta che comunque vadano i negoziati in corso fra americani ed Unione europea difficilmente si tornerà a zero, quel 10% potrebbe essere uno zoccolo duro con cui tutti dovranno avere a che fare.
Meloni è convinta che possa essere il male minore, ha detto che molte nostre aziende possono reggere l’impatto, ha analisi sulla propria scrivania secondo le quali il costo verrebbe scaricato sul mercato americano, non sul fatturato delle imprese italiane: il caso dell’acciaio di qualità superiore, il dazio stupido, le darebbe ragione. Ma le danno ragione anche la maggior parte delle categorie di prodotti alimentari, o frutto delle aziende vinicole: un certo tipo di barriera tariffaria può essere riassorbito fra minori guadagni del produttore e maggior costo del consumatore, in un nuovo equilibrio.
Per questi motivi a Palazzo Chigi non si scommette al momento che la proroga americana rispetto alla scadenza delle trattative per il 9 luglio sia per forza una buona notizia. La Commissione sta conducendo negoziati di livello successivo e settoriale su tutti i prodotti chiave della Ue, a cominciare dalle automobili, che Trump minaccia di tassare con un dazio ulteriore del 50%, e non tutti gli Stati membri sono schierati allo stesso modo. Se tutte le capitali sono in parte cieche, visto che la mancanza di competenza non consente ai governi di seguire day by day la progressione dei negoziati e gli specifici settori, su quel 10% che potrebbe restare esistono posizioni diverse.
Non è un mistero che Macron non abbia intenzione di accettare un livello di dazi al 10%. Si può sempre tornare a minacciare Washington di una risposta simmetrica o superiore, secondo l’Eliseo, e la teoria che la stabilità dei mercati e le certezze dell’economia facciano premio anche su un possibile sacrificio della Ue, non vengono condivise da tutti gli Stati membri. Come accaduto su Gaza, come sull’immigrazione, negli ultimi giorni invece la condivisione di interessi e posizioni comuni, fra Berlino e Roma, va crescendo, a dispetto del disgelo che pure c’è stato fra il presidente francese e la presidente del Consiglio italiana. Sull’immigrazione, inoltre, Italia e Spagna, insieme con Grecia, Malta e Cipro, hanno criticato la proposta di un accordo franco-britannico, sostenendo — in una lettera alla Commissione Europea e visionata dal Financial Times — che potrebbe costringerli a riportare nel continente le persone rimpatriate dal Regno Unito.
Ma c’è anche da considerare il tema del 5% e delle armi, il patto siglato fra Europa e Stati Uniti a L’Aia qualche giorno fa: Trump non può tirare troppo la corda, e la Meloni lo ha detto, a porte chiuse; l’aumento delle spese militari da parte europea in teorie presupporrebbe tariffe zero e una zona di free trade. Un’ambizione lecita, ma che rischia di spezzare la corda dei negoziati. Nel momento in cui Washington chiede all’Europa di fare uno sforzo finanziario sul fronte militare non può poi deprimerne il Pil con i dazi. Ma questo ragionamento Giorgia Meloni lo ha fatto soltanto a porte chiuse di fronte a Trump.
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28 giugno 2025
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