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Visto da Pechino, è l’intero Occidente e non la sola Nato «in stato di morte cerebrale»

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Vista da Pechino, non solo la Nato ha esaurito la sua spinta propulsiva, ma dietro i suoi problemi è l’intero Occidente liberal-progressista a trovarsi in stato di «morte cerebrale». Per la Cina si presenta un’occasione storica di esportare il suo modello. Tuttavia le forze strutturali dell’America restano intatte, alcuni ingredienti della «rivoluzione trumpiana» possono risultare efficaci, pertanto la Repubblica Popolare deve tornare sulla strada delle riforme di mercato che le restituiscano dinamismo. Questa è l’analisi di un pensatore cinese autorevole e molto ascoltato a Pechino, che val la pena di essere studiata.

Ciò che accade nel mondo crea interrogativi anche ai vertici della seconda potenza mondiale. Xi Jinping ha spesso osservato che stiamo attraversando «trasformazioni di portata tale, che non si vedevano da un secolo». Il dibattito tra gli esperti cinesi sull’interpretazione degli eventi contemporanei è più aperto, problematico e vivace di quanto non traspaia dalla propaganda ufficiale.

Uno di questi esperti è Zheng Yongnian. L’espressione da cui lui prende spunto è del presidente francese Emmanuel Macron, che in passato criticò la Nato definendola «in stato di morte cerebrale». Per il professor Zheng Yongnian non è solo la Nato a soffrire di questa condizione: è tutto l’Occidente a trovarsi in questo stato.

Sulla newsletter specializzata Sinification, il sinologo James Farquharson presenta così questo pensatore:

«All’interno della Cina, Zheng Yongnian è talvolta considerato un accademico occidentalizzato. Formatasi negli Stati Uniti, da tempo sostiene una maggiore apertura dell’economia cinese ed esprime scetticismo nei confronti di chi dipinge il modello cinese come un’alternativa ideologicamente superiore. La sua affermazione polemica – secondo cui l’Occidente non avrebbe prodotto alcuna idea politica significativa dai tempi di The End of Ideology di Daniel Bell (1960) – non nasce dunque da un’antipatia ideologica. Il suo bersaglio principale è il liberalismo progressista che associa al Partito Democratico americano, che egli considera un tentativo di mantenere la supremazia globale degli Stati Uniti con effetti di auto-corruzione. Al contrario, esprime apprezzamento per l’indifferenza ideologica dell’amministrazione Trump e per le opportunità che questo approccio crea nei rapporti tra Stati Uniti e Cina. Zheng sostiene che, rifiutando l’ideologia liberale delle élite, Trump stia sacrificando l’egemonia globale per affrontare i problemi interni causati proprio dal liberalismo progressista – una prospettiva che richiama l’analisi di Pan Wei sul populismo americano. Contrariamente alle letture in stile Guerra Fredda, Zheng non considera la rivalità attuale fra USA e Cina uno scontro di modelli politico-economici. Sorge dunque la domanda: se non si tratta di modelli ideologici, cosa alimenta le tensioni tra le due superpotenze? Il pensiero di Zheng riecheggia la tesi dello “Scontro di civiltà” di Samuel Huntington. Huntington – uno studioso con una profonda influenza sul pensiero politico cinese contemporaneo (anche ai massimi livelli) – aveva previsto che, dopo la Guerra Fredda, i conflitti sarebbero derivati non da contrapposizioni ideologiche ma da attriti legati a modelli di civiltà. Zheng considera l’ordine internazionale liberale una copertura per la “civiltà bianca”, accusando i progressisti americani di voler imporre i propri valori su altre culture politiche, in contrapposizione – sostiene – alla civiltà pluralistica cinese e al suo modello di sviluppo “open-source” (un richiamo all’intelligenza artificiale “made in China” di DeepSeek). Commentando un articolo dell’ex funzionario dell’amministrazione Biden Kurt Campbell, che a suo avviso promuoverebbe la “solidarietà bianca” (sebbene Campbell non scriva nulla del genere), Zheng arriva a spiegare l’inclusione del Giappone nello schema di alleanze di Campbell sostenendo che il Paese sarebbe stato “sbiancato” [白人化]. Zheng propone che la Cina possa offrire un modello di sviluppo aperto e non ideologico, applicabile a diverse culture politiche. Respingendo qualsiasi visione ideologica di tipo universalista, gli restano solo la differenza razziale e di civiltà come chiavi di lettura dei riallineamenti internazionali contemporanei».

Ecco in sintesi i punti chiave dell’analisi di Zheng Yongnian (e la sua bio in fondo):

* L’ordine internazionale liberale, al momento della sua creazione, fu un’impresa di straordinaria lungimiranza da parte degli intellettuali e degli statisti che lo concepirono. Tuttavia, dalla Seconda guerra mondiale in poi, è servito a mantenere l’egemonia americana.

* L’ossificazione del liberalismo progressista in un’ideologia dogmatica ha condotto alla «morte cerebrale» della società occidentale. Di conseguenza, le sue istituzioni accademiche non hanno prodotto idee nuove e significative dagli anni Sessanta.

* Il declino del pensiero critico, alimentato dall’ortodossia liberale, ha favorito una serie di politiche economiche fallimentari – in particolare quelle di matrice neoliberista, che hanno progressivamente disconnesso la società dall’economia.

* Smantellando il liberalismo sia sul piano interno sia in politica estera, Trump incarna una reazione anti-ideologica e anti-élite, rispetto ai danni che il liberalismo ha inflitto alle società occidentali.

* I Democratici, al contrario, restano legati al liberalismo perché questo sostiene un sistema internazionale fondato sul primato americano – donde la loro reazione virulenta a quella che considerano la recente «resa» di Trump alla Cina a Ginevra.

La decisione di Washington di fare concessioni commerciali alla delegazione cinese a Ginevra segnala l’ascesa della corrente «realista» americana (i «moderati») a scapito della fazione più intransigente del «tutto e subito» nell’amministrazione Trump – una situazione indubbiamente favorevole alla Cina.

Anche se la Cina non intende «esportare» il proprio modello politico, questo momento storico offre l’opportunità di promuovere più ampiamente il suo modello di sviluppo – che non impone un’ideologia fissa ad altre società.

Nonostante, o forse proprio a causa dell’erosione dell’ordine internazionale liberale e quindi della loro egemonia globale, gli Stati Uniti sotto Trump conservano punti di forza strutturali significativi. Le prime iniziative di deregolamentazione e decentramento – sostenute da figure come Elon Musk nei primi atti dell’amministrazione Trump – hanno posto le basi per l’innovazione nella nascente «Quarta rivoluzione industriale». Sebbene il modello cinese abbia guadagnato popolarità a livello globale, la regolamentazione eccessiva in Cina ha soffocato lo sviluppo tecnologico e aggravato il fenomeno dell’«involuzione» economica. È urgente un rinnovato impegno verso l’apertura.

L’Autore Zheng Yongnian (郑永年), 63 anni.

Direttore fondatore dell’Institute for International Affairs e Professore titolare della X.Q. Deng Presidential Chair, Chinese University of Hong Kong, Shenzhen.

In passato: Direttore dell’East Asian Institute, National University of Singapore (2008-2019); Direttore della ricerca del China Policy Institute, University of Nottingham (2005-2008); Ricercatore presso l’East Asian Institute di Singapore (1996-2005).

27 giugno 2025

27 giugno 2025

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