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Le «sette vite» di Pedro Sánchez, alfiere della sinistra anti riarmo

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«L’umanità oggi ha bisogno di più sicurezza ma anche di molta più diplomazia. E quindi di più speranza». È il nuovo mantra del premier spagnolo, Pedro Sánchez, l’ormai attempato alfiere della sinistra globale, l’unico leader europeo che tiene testa alla furia di Donald Trump e alla sua chiamata alle armi e, per la prima volta, parla di «genocidio a Gaza», chiedendo all’Ue di sospendere l’accordo di associazione con Israele. E in serata Madrid convoca l’incaricato d’affari dell’ambasciata israeliana che aveva attaccato il premier.

Pedro il Sopravvissuto a decine di crisi politiche in patria, ultima della serie il mega scandalo di corruzione che s’è portato via nel pubblico ludibrio l’ex numero 3 del Psoe, Santos Cerdán, e altri notabili socialisti, ora conquista pure il titolo di Pedro il Pacifista, che rifiuta di aumentare la spesa per la difesa al 5% del Pil, come pretende Trump, e alle sue minacce — «gli faremo pagare il doppio» — ieri ha risposto serafico: «La Spagna è un Paese sovrano». Frase che nella penisola iberica è piaciuta perfino ai nazionalisti della destra più tradizionale, erede del franchismo, che non ama farsi mettere i piedi in testa neppure dal capo dei Maga. Tant’è che non hanno avuto grande eco le parole del leader del Partito popolare Alberto Núñez Feijóo, eterno rivale e sconfitto, che accusa Sánchez dell’ennesima «farsa» e di «aver in realtà avallato il piano di riarmo della Nato».

E se l’ira funesta di Trump minaccia dazi ad hoc — «a quell’economia possono accadere cose molto brutte» — il ribelle di Spagna si fa forte dell’ombrello europeo e ricorda che «la politica commerciale è diretta da Bruxelles, per conto di tutti gli Stati membri». L’approccio dell’Ue è «se attaccano uno di noi, noi rispondiamo insieme», simile alla clausola di sicurezza collettiva dell’articolo 5 Nato. 

Il tycoon potrebbe prendere di mira prodotti specifici dell’economia spagnola, come già fece con i dazi sulle olive nere durante il suo primo mandato, ma comunque Madrid è molto meno dipendente dall’export verso gli Usa rispetto a Germania o Italia.

Eccolo, Pedro il Socialista, che non può rinunciare alle politiche del bienestar per la sua Spagna (dove da quest’anno il salario minimo è salito a 1.381 euro al mese). Già l’annuncio di aumentare la spesa militare al 2% del Pil quest’anno aveva fatto vacillare la coalizione con la sinistra di Sumar e il sostegno esterno dei nazionalisti catalani. Il 5% rischiava di essere fatale per un governo che viaggia sul filo del rasoio di una risicatissima fiducia parlamentare. 

Il premier aveva due opzioni: accettare il diktat Nato, salvo poi non rispettare l’impegno (e non sarebbe stato l’unico), affrontando così la probabile caduta del suo esecutivo o sfidare nell’arena Trump, «la figura di spicco dell’Internazionale reazionaria mondiale», come scrive il quotidiano di sinistra El Diario. Ha scommesso sulla seconda carta, e sull’ambiguità: firmo la dichiarazione del 5%, ma «la Spagna non supererà il 2,1%».
 
Gioca il ruolo del guastafeste e incassa il sostegno dei progressisti d’Europa, Elly Schlein inclusa. Forte di un’altra vittoria a casa — la Corte costituzionale ha avallato l’amnistia per i separatisti catalani — rincara il piglio «izquierdista» denunciando al Consiglio europeo il «genocidio a Gaza». Perché la Spagna vuole «continuare a essere un attore di primo piano a livello mondiale. E la storia insegna che le guerre non hanno vincitori». Applausi a sinistra. Forse se la cava pure stavolta.

27 giugno 2025

27 giugno 2025

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