Il cibo italiano continua a crescere, ma la partita si gioca sempre più sui mercati internazionali. È il quadro che emerge dall’undicesima edizione del Food Industry Monitor, l’osservatorio sulle performance e i modelli di business delle imprese agroalimentari italiane, promosso dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e da Ceresio Investors.
Nel 2024 il settore ha segnato una crescita del +5,9%, con proiezioni positive anche per il 2025 (+4,6%) e il 2026 (+4,4%). Numeri superiori alla media del Pi nazionale (0,7%), che confermano la solidità della filiera alimentare. Ma le ombre non mancano. A preoccupare sono soprattutto i dazi doganali paventati dagli Stati Uniti.
«Il 2024 è stato un anno interlocutorio per il settore del food – spiega Carmine Garzia, responsabile scientifico dell’Osservatorio -. Le prospettive per il 2025 sono positive, ma andranno sicuramente riviste al ribasso in caso di attivazione dei dazi doganali e qualora l’evoluzione della guerra in Medio Oriente comportasse una contrazione della produzione di petrolio e dei flussi turistici».
L’export continua a trainare la crescita: per il 2025 si prevede un balzo del +7,3%, con comparti come vino (oltre 8 miliardi di export), caffè, olio e farine in forte ascesa. Tuttavia, il 13% delle esportazioni è diretto agli Usa e il rischio di barriere all’ingresso non è trascurabile.
«Occorre considerare che solo alcuni player italiani hanno strutture produttive negli USA -, avverte Garzia -. Questa non è un’opzione alla portata di tutte le aziende”.
Da qui l’urgenza, secondo gli esperti, di rafforzare le strategie di crescita internazionale. «Quanto sta accadendo a livello globale deve farci riflettere seriamente», aggiunge Alessandro Santini, Head of Corporate & Investment Banking di Ceresio Investors. «Non dobbiamo vedere il made in Italy solo come esportazione di prodotti finiti, ma anche come trasferimento di know-how produttivo. La crescita esterna resta una delle opzioni più efficaci per sostenere la competitività».
Nel cuore del comparto restano le imprese familiari, che rappresentano il 67% del campione analizzato (oltre 860 aziende). Nei segmenti delle farine, distillati, olio e caffè superano l’80%. E si distinguono per performance economiche superiori rispetto alle aziende non familiari: ROI e ROE più alti, maggiore stabilità e resilienza.
Interessante anche il dato anagrafico: oltre metà delle aziende familiari è guidata da esponenti della terza generazione o oltre. Il 75,8% adotta modelli di governance basati su Consiglio di Amministrazione. Nelle imprese con leadership collegiale o presidenti “familiari”, i ritorni economici sono più elevati. «La governance conta – ha ribadito Garzia – soprattutto se i consiglieri sono anche azionisti. La presenza attiva e condivisa della proprietà all’interno del CdA migliora sensibilmente il Return on Assets».
26 giugno 2025
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