
Il 26 giugno 1925 Charles Chaplin presentava in anteprima a Los Angeles La febbre dell’oro/The Gold Rush (che sarebbe poi uscito nelle sale statunitensi circa due mesi dopo e da noi a ottobre). È il film per il quale Chaplin ha sempre detto che avrebbe voluto essere ricordato. È un capolavoro assoluto della storia del cinema.
Fra tutte le opere di uno dei maggiori geni del Novecento, è forse quella in cui meglio e più armonicamente si fondono il suo personalissimo senso del comico, la sua malinconia romantica, la sua predilezione per l’epica dei perdenti e la sua spesso sotterranea ma mai assente idea di critica sociale.
Il celeberrimo personaggio del Vagabondo, all’epoca già perfettamente e progressivamente delineato dopo una quantità infinita di cortometraggi e Il monello/The Kid (1921), qui s’inoltra tra i ghiacci del Klondike, nel Canada di fine XIX secolo, quando la migrazione della corsa all’oro rappresentò per molti americani una delle tante sfaccettature del loro «sogno».
Ciò che il Vagabondo troverà, tuttavia, sarà qualcosa di molto più prezioso di una pepita o un giacimento; e il suo viaggio comico e struggente assumerà i connotati di una riflessione lirica sul desiderio, sulla fame (fisica ed emotiva), sul riscatto e la dignità.
Il protagonista affronta il Grande Nord nella sua tenuta standard, con scarpe lise, bastone e bombetta, sfidando bufere e minatori rissosi, appetito e solitudine, in un universo ostile dominato dalla legge del più forte incarnata da Black Larsen (Tom Murray) e dal borioso Jack (da noi Giacomone, interpretato da Mack Swain).
Il Vagabondo è il solo a opporvi un’etica personale fatta di gentilezza, stupore, ostinazione e fantasia, con un piglio da eroe: epico nel modo in cui trasforma ogni miseria in grazia, ogni fallimento in un atto di resistenza, ogni movimento in gesto artistico. Il contesto in cui uscì il film è rilevante: nel 1925, l’America postbellica (benché tardivamente coinvolta nella Prima Guerra Mondiale) viveva un’illusione collettiva di prosperità.
Ma Chaplin, figlio della povertà e della marginalità, continuava a raccontare i diseredati. E la scelta di farlo nel periodo della corsa all’oro di fine Ottocento funzionava come perfetta allegoria dell’avidità dei singoli e del senso d’illusione collettiva già in parte affiorante nell’American Dream.
Il film è pieno di momenti -anche tecnicamente- memorabili (la casa in bilico sul crepaccio; il delirio durante il quale Jack vede il Vagabondo come un enorme pollo), ma due sequenze su tutte sono entrate nella storia del cinema: quella della scarpa cucinata e divorata come una pietanza prelibata, con le stringhe succhiate alla stregua di spaghetti e i chiodi masticati come ossicini di pollo (sessantatré ciak, tre giorni di riprese e decine di calzature realizzate in liquirizia), un vertice assoluto di pantomima; e quella non meno celebre della «danza dei panini», eseguita da Chaplin come un numero di ballo sulle forchette infilzate, nella scena onirica della notte di Capodanno.
In entrambe, il corpo dell’attore diventa IL mezzo espressivo assoluto e il cibo (l’assenza di) assume un valore di compassione, elevando la «fame» da bisogno puramente fisico a necessità di colmare mancanze più profonde: d’identità, dignità, amore.
Quest’ultima opzione si concentra nel personaggio di Georgia (Georgia Hale), la soubrette di cui il Vagabondo si innamora, che sposta, determina, attrae e disassa tutto il coté sentimentale del film. La ragazza in un primo momento appare vanesia, civettuola, svagata: ma non è una cattiva persona, solo una giovane donna che gioca con l’attenzione degli uomini per sfuggire alla noia e illudersi di poter esercitare una piccola resistenza privata ai soprusi del villaggio.
Quando però si accorge dell’affetto sincero del Vagabondo e ne percepisce l’innocenza, è lui l’unico uomo che inizia a guardare con occhi diversi. E Chaplin, che non giudica mai le sue creature, finisce col costruire attraverso entrambi una parabola d’amore sgangherata ma toccante, fatta di incomprensioni, fiori conservati sotto il cuscino, scherzi bizzarri e gesti di tenerezza.
È d’altronde in questa prodigiosa volatilità e alternanza di toni che il film compie tutti i suoi miracoli; riuscendo a passare, nel giro di pochi minuti, da una risata fragorosa a una stretta al cuore. Il montaggio, il ritmo, l’uso del gesto al posto della parola (è ancora cinema muto, ma parla già e più della successiva innovazione del sonoro): tutto concorre a creare un flusso emotivo travolgente.
E nel finale, Chaplin osa anche un happy end in piena regola: come Jack, il Vagabondo è diventato milionario; ma il vero tesoro è l’amore ritrovato. Quando Giorgia, imbarcatasi senza saperlo sullo stesso piroscafo che lo sta riportando in America, lo difende credendolo un clandestino e scopre invece che è ricco e celebrato, lo sguardo che gli rivolge non è quello di una sorpresa che potrebbe essere velata di opportunismo, ma solo quello di un’accresciuta consapevolezza affettuosa.
E quando lui la presenta come sua moglie ai fotografi, la scelta non è un atto di possesso, ma il suggello di un percorso sentimentale che ha trasformato la miseria in affetto condiviso. C’è in questo epilogo una sorta di gentile utopia: il mondo può anche essere crudele, ma la bontà e la speranza possono trionfare.
Non è retorica da fiaba morale «liofilizzata»: è solo un’idea di «giustizia poetica». Il povero, che ha conservato la propria umanità, merita ricchezza, rispetto, amore. Ed è proprio in questo scarto che La febbre dell’oro compie il suo prodigio: illuderci, per il breve tempo di un racconto, che avere un’anima possa bastare a trasformare il mondo. Non è vero, ovviamente: ma non è mai stato così bello crederci.
26 giugno 2025
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