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Riforme, il governo prende atto che forzare è un rischio

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La tesi secondo la quale la maggioranza ha fatto scomparire le sue due riforme strategiche dai lavori parlamentari perché è divisa convince solo in parte. Più che un gesto di debolezza appare un atto di realismo. Premierato e separazione delle carriere dei magistrati sono temi non solo altamente divisivi ma di difficile approvazione con le percentuali richieste dalla Costituzione. Soprattutto il testo del primo, per come è stato scritto, si è dimostrato confuso e discutibile fino a risultare imbarazzante perfino nelle file della maggioranza.

Averlo accantonato nasce, più che da una spaccatura interna alla coalizione di Giorgia Meloni, dalla consapevolezza di non riuscire a realizzarlo; e di poterlo ottenere aggirando il problema con una nuova legge elettorale. D’altronde, il modo in cui Meloni si muove già prefigura una sorta di «premierato di fatto». E la solidità della maggioranza garantisce la stabilità che la riforma dovrebbe blindare. Può darsi che in autunno riemergano tentazioni di accelerare i tempi. Ma c’è da capire quali saranno le vere ragioni.

Per la separazione delle carriere il discorso è diverso. Che la maggioranza, con Forza Italia in primissima linea, voglia ottenere il risultato è indubbio. Ma, di nuovo, la soddisfazione del Pd per la scomparsa dal calendario della Camera forse non dipende solo dalla «dialettica» nelle file avversarie. Intanto, si è dissolta l’ipotesi di un referendum sulla giustizia che nei mesi scorsi alcuni ministri avevano dato per scontato in autunno. Non ci sono i tempi per arrivare a un voto sulla riforma e poi indire la consultazione.

L’astensionismo preoccupante che si è registrato sugli ultimi referendum dell’opposizione rappresenta un monito, anche se in questo caso non sarebbe necessario raggiungere il quorum del cinquanta più uno per cento dei votanti. L’elemento aggiuntivo è che i sondaggi più riservati indicano risultati in bilico: un rischio che Palazzo Chigi non può assumersi a cuor leggero. L’esempio della sconfitta dell’allora premier del Pd, Matteo Renzi nel 2016, quando fu bocciata la sua proposta di abolizione del Senato, è ancora lì. E pesa, nonostante i tempi siano cambiati.

Per questo, non è da escludersi che sulla separazione delle carriere la discussione andrà avanti, possibilmente senza forzature tali da radicalizzare magistratura e opinione pubblica. Ma una volta appurato che in Parlamento non ci sono i due terzi per approvarla, la prospettiva referendaria non si concretizzerà prima del 2026. O forse sarà addirittura superata: nel senso che tra più o meno un anno gli effetti virtuosi di trascinamento sull’economia del Piano per la ripresa, il Pnrr, saranno finiti. E quasi per inerzia si potrebbe esaurire anche la legislatura.

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25 giugno 2025

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