
«Allora ragazzi, cominciamo. Ma prima ho bisogno che mi ricordiate una cosa: perché sono professore?». Renzo Piano sorride divertito. Si volge indietro, come se davvero aspettasse una risposta; uno dei suoi collaboratori fa anche il gesto di sussurrargli qualcosa ma è solo un modo per stare al gioco. Poi l’architetto torna a guardare gli studenti. «Ah sì, per alta qualifica acquisita. Non si sa quando, non si sa dove. La verità è che io non lo so fare il professore, per questo oggi vi offro il mio martirio».
È seduto nella sala principale che dal 25 novembre 2022 ospita la Fondazione che porta il suo nome, al primo piano di un edificio del campus del Politecnico di Milano che tutti chiamano «la Nave» perché la forma ricorda una prua. Oggi è il giorno degli esami e Renzo Piano è di un umore eccellente, persino migliore del solito. Qualche giorno prima, nel suo studio alle porte di Genova dove mi aveva invitato per spiegarmi a cosa avrei assistito, a un certo punto aveva detto: «Alla mia età lo sai benissimo cosa devi fare. E cosa non devi fare. Andare a ritirare i premi per esempio non serve a nulla, a meno che non sia un premio Nobel certo. Il mio vero premio ogni giorno è stare con i giovani, sentire la loro voglia di imparare, il loro desiderio di futuro. La vedi quella ragazza che sta scendendo la scale adesso? È cinese, guarda che sguardo ha…».
Il buon umore però deriva anche da quello che lui chiama martirio («ma molto piacevole, lo ammetto»): è il modo in cui si svolgono gli esami, un’invenzione di cui va molto fiero. «Gli studenti devono scegliere un mio progetto — che ovviamente ho vissuto e sofferto e che conosco meglio di tutti; e individuare un errore o una mancanza e proporre una soluzione. Insomma mi devono fare a pezzi. Questo esercizio distrugge istantaneamente il muro di soggezione tra il prof e gli studenti». Quando lo ripete in aula, conclude rivolto a loro: «Vero, ragazzi?». Gli studenti, una ventina, lo guardano ammirati e grati come gli antichi greci miravano gli dei dell’Olimpo. Non è soggezione, ma un po’ gli assomiglia. L’architetto se ne rende conto: «Diciamo di sì…».
Il metodo in realtà serve anche ad altro: «Riflettere sui propri errori è una delle cose più importanti nella vita. Perché sbagliare è inevitabile e chi pensa che non debba sbagliare mai vive paralizzato dalla paura e non può inventare nulla di nuovo. Per questo il mio consiglio è di lavorare sempre in gruppo: perché quando qualcuno farà un errore, gli altri potranno correggerlo». A questa giornata speciale Renzo Piano ha voluto aggiungere una cosa ancora: un dialogo con il suo amico Richard Axel, premio Nobel per la Medicina nel 2004 per i suoi studi sui recettori olfattivi. Il dialogo con qualcuno che apparentemente non c’entra nulla con l’architettura è un format a cui i suoi allievi sono abituati: una volta è venuto Mario Draghi a parlare di economia, l’ultimo era stato il musicista Nicola Piovani. Per Piano tutto si tiene, tutto serve, «perché un vero architetto deve sapere sconfinare». Con Axel lo sconfinamento sarà nel mondo delle neuroscienze, perché da qualche tempo dirige il «Mind, Brain and Behavior Institute» della Columbia University di New York, che sta in un edificio del nuovo campus che ovviamente Piano ha progettato e realizzato fra il 2007 e il 2016. È stato allora che i due si sono conosciuti e sono diventati amici.
La sera prima degli esami sono andati assieme a rivedere il Cenacolo di Leonardo e sono rimasti estasiati dal restauro ma anche dalle ragioni, tutt’altro che banali, che hanno fatto sì che questa opera si deteriorasse tanto rapidamente. Lo racconta ai ragazzi: «Dipende da una tecnica che Leonardo usava per darsi il tempo di riflettere. L’affresco infatti non ti dà tempo di pensare, in due giorni devi finire tutto. Lui invece stendeva prima uno strato di gesso e colla animale che gli consentiva di riflettere, misurare la prospettiva e ripensarci. Il pentimento, quando fai qualcosa, è importante».
Finalmente iniziano gli esami. Il primo team ha immaginato di creare un collegamento fra The Shard, il grattacielo di 72 piani che Piano realizzò a Londra nel 2012 «come vessillo della parte povera della città», e le migliaia di passeggeri della sottostante stazione metro. Piano è entusiasta della soluzione proposta: «Avete portato la luce nelle tenebre. Girerò la vostra idea ai miei amici inglesi». Il secondo team ha lavorato sul museo di arte moderna di Oslo, ma quando Piano chiede loro il peso di una nuova struttura proposta gli studenti annaspano: «Non sottovalutate mai il peso delle cose, dovete misurare tutto, io lo faccio, per questo i miei amici mi chiamano il geometra».
La proposta di una bellissima tensostruttura per la Cavea dell’Auditorium di Roma ha il difetto di insistere su un muretto che non potrà reggere alla tensione in un giorno di vento («a meno che quel giorno non ci vada uno di voi a reggere il tirante…»). Mentre la rigenerazione degli oltre duecento appartamenti di social housing di Parigi tramite la creazione di «giardini d’inverno» gli consente una riflessione sui limiti con cui confrontarsi quando si fa un progetto. «A Parigi nel 1991 avevamo piccolo budget e non ci potevamo permettere i winter garden. Alcuni pensano che l’ideale sia non avere limiti, invece i limiti servono per la creatività. Roberto Rossellini, in pieno neorealismo, ogni mattina sapeva di poter girare il suo film in base a quanta pellicola aveva rimediato, non un minuto di più; e guardate che ha fatto».
Quando in aula arriva Richard Axel, Piano lo abbraccia, gli studenti applaudono e gli esami proseguono in inglese. Tra un progetto e l’altro Piano dispensa piccole gemme: «L’architettura è l’arte di costruire rifugi per esseri umani»; «la luce è il materiale più importante quando costruisci qualcosa»; «l’acqua rende tutto più bello». Ma forse la frase più importante è questa: «Conosco la parola impossibile in sette lingue. Anche a voi ve lo diranno spesso, e dovrete dimostrare che non lo è». Oppure questa: «La poesia della bellezza ha una forza incredibile, lo diceva la mia amica Nanda Pivano… sto sconfinando, lo so, ma è così che dovete fare anche voi».
Gli esami sono finiti, il professore riunisce i suoi assistenti per decidere i voti. Nel frattempo Axel si concede a un giornalista tv. Dice: «Renzo è un artista, crea delle strutture basate sulla sua percezione della realtà, che poi è il mio campo di studi». Gli chiedono cosa sta accadendo al mondo scientifico americano Axel risponde di essere «molto, molto preoccupato per quello che West Wing sta facendo alla scienza che era un pilastro degli Stati Uniti». Dice proprio così, «West Wing», l’ala Ovest della Casa Bianca dove si trova l’ufficio del presidente. Non dice mai la parola «Trump». Mai. Non è un caso. È un segno. Come quando in Harry Potter i ragazzi chiamavano Voldemort «tu-sai-chi» perché solo evocare il suo nome poteva creare guai. Adesso in America quando vuoi parlare di Trump senza nominarlo per timore di rappresaglie puoi provare a dire «West Wing».
Tutti gli studenti prendono 30, «ma non un 30 politico» dice il professore. Dopo pranzo è il momento del dialogo. Si svolge in quella che Piano chiama «la mia caverna»: un meraviglioso cubo con un tavolo circolare e con le pareti interne dedicate a raccontare molti dei suoi progetti più belli; dal soffitto pendono alcuni iconici resti dei cantieri, come uno degli ingranaggi rossi del Beaubourg che nell’edificio parigino indicano le scale mobili o gli ascensori. Si parte. Il calcio d’inizio è del padrone di casa: «Da dove vengono le idee?» chiede. Axel svicola: «Non lo so, ma quello che so è che c’è qualcosa di magico nel fatto che un edificio esista nella vostra immaginazione e poi diventi realtà».
Piano: «C’è un momento nella vita di ciascuno quando decidiamo di essere creativi. Per me fu quando ero un bambino e mio fratello vide che stavo disegnando qualcosa e mi disse che bello. Nella vita abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che bello quando creiamo qualcosa per darci la spinta di farlo ancora e provare quel piacere di nuovo».
Axel: «Non ci stai spiegando come nasce la creatività. Come Picasso che quando glielo chiedevano diceva: non lo so e se lo sapessi non te lo direi. La scienza è diversa dall’arte, si procede accumulando conoscenza fino a quando non c’è un cambio di paradigma e allora devi essere bravo a collegare le cose in modo diverso. Steve Jobs diceva che basta collegare i puntini, ma non diceva quali. Abbiamo 86 miliardi di neuroni, è un gran numero di puntini…».
La conversazione approda sul tema delle passioni e delle affinità elettive: cosa succede nei neuroni quando due persone si piacciono? Dice Piano: «I grandi scienziati sono abbastanza modesti da sapere quando è il momento di fermarsi, a volte un mistero è un mistero; puoi arrivare davanti a un tempio, sederti sulle scale, ma non riuscirai mai a entrarci. La natura umana è così ricca, complessa, fantastica».
Axel: «Una volta ho avuto una conversazione con un tipo del Mit che mi stava spiegando cosa è accaduto nei primi secondi dopo il Big Bang, gli ho detto che era più importante capire cosa è accaduto nei secondi prima del Big Bang e si è offeso…».
Piano: «Fermiamoci qui sennò mi metto a piangere. Le persone si offendono a volte perché non capiscono che dobbiamo essere abbastanza umili da accettare che alcuni misteri sono destinati a restare tali».
Axel: «Nelle neuroscienze la grande domanda che ci facciamo è se un giorno il nostro cervello sarà in grado di capire e spiegare sé stesso. Alcuni scienziati non accettano questo limite, ma per me il problema non è ammettere di non sapere, ma pensare di sapere quando non si sa».
Piano: «Hai ragione, quando non so qualcosa resto in silenzio e sono felice lo stesso. Anche come nascono le idee è un mistero ma sappiamo la meccanica che si attiva. È come un ping pong: uno dice una cosa che non è ancora una idea, un altro la prende e la migliora e poi un altro ancora e alla fine di questi rimbalzi c’è una nuova idea. E tutto dipende dal coraggio del primo che ha detto qualcosa che poteva sembrare stupido. Abbiamo bisogno di quel coraggio».
Axel trova il coraggio di raccontare come è diventato scienziato («perché quando ero studente di medicina mi fecero promettere che non avrei mai operato un paziente, vivo e neanche morto!»). Ma Piano torna sulla creatività: «Quando arrivi a una certa età capisci che ciascuno di noi è la somma degli amici che ha avuto, dei film che ha visto e dei libri che ha letto e dell’amore che ha provato. Ecco cosa siamo davvero. Una somma di tutta questa vita. Un poeta che amo molto, Jorge Luis Borges, diceva che siamo sospesi fra la memoria e l’oblio. Ed è in quello spazio che nascono le idee che non sono solo nostre quindi, ma le abbiamo viste o vissute da qualche parte; anche se pensavamo di averle dimenticate, stavano in qualcuno degli 86 miliardi di neuroni. A quel ricordo ci aggiungi qualcosa e nasce un’idea».
Il tempo sta per finire, resta una domanda, sull’intelligenza artificiale generativa: genera davvero idee? In fondo gli algoritmi addestrandosi fanno proprio quel ping pong di cui si è parlato oggi. Axel risponde: «Per noi scienziati l’intelligenza artificiale è fondamentale per la velocità con cui genera informazioni che non riusciremmo a processare. Ma secondo me alle macchine mancano i tre miliardi di anni di evoluzione del cervello umano. Ecco perché se dai a un algoritmo diecimila immagini di cani e gatti il giorno dopo avrà imparato a distinguerli; se dai a un bambino di tre anni dieci foto, in tre secondi avrà capito la differenza».
Piano. «Io in questi giorni uso molto l’intelligenza artificiale per tradurre le conversazioni che ho con dei clienti cinesi. È meraviglioso. Ma l’altro giorno a un certo punto il chatbot ha tradotto un messaggio in cui l’interlocutore mi faceva un complimento definendomi fratello e nonna. Nonna, capite? Sono ancora stupide queste macchine. Ma presto impareranno e quello che possono fare nel campo della lingua è spettacolare: oggi usiamo tutti l’inglese, ma presto potremo capirci parlando la nostra lingua, con le nostre sfumature e la nostra cultura; e sarà un risultato straordinario. Mi preoccupa invece quello che questi algoritmi possono fare in termini di manipolazione dell’opinione pubblica, gli effetti sulla politica sono terribili».
Il finale è tutto di Piano e dei suoi ragazzi. «L’altro giorno ero al telefono con il mio amico Roberto Benigni, ha appena scritto un libro, Il sogno, dove dice una cosa molto importante che vi riguarda. Dice che l’Europa con i suoi 450 milioni di abitanti è il posto del mondo con le persone più istruite. Ci sono persone molto istruite anche in America, certo, ma sono quasi tutte sulle due coste, più Chicago e il Texas. Il resto è un deserto. L’Europa ha tutto, foreste, laghi fiumi e tantissime città, grandi e piccole; ma non ha deserti. I deserti sono l’opposto delle città, non lo dico io, lo dice la Bibbia, quando dice che il destino dell’umanità è nelle città il cui contrario non è la campagna, che è vitale, ma il deserto, dove crescono i mostri, anche quelli politici che vediamo adesso. E voi, ragazzi, siete una generazione incredibile, siete la generazione Erasmus, che è cresciuta in questa Europa qui. Io ho lavorato in tutto il mondo, ci sono belle persone in tutto il mondo, ma l’Europa è speciale. Dovete essere consapevoli della fortuna che avete ad essere europei, perché l’Europa è un posto con un livello di istruzione incredibile e l’unica speranza per la democrazia è l’istruzione. Senza, la democrazia è in pericolo. Non scordatelo mai».
I due maestri
L’architetto Renzo Piano ha progettato alcuni tra i più celebri edifici del mondo. Tra questi, il Beaubourg di Parigi (1971-1977; con Richard Rogers), l’Auditorium Parco della Musica di Roma (1994-2002); il Viadotto Genova San Giorgio (2028-2020). Ha vinto il Premio Pritzker nel 1998. Lo scienziato Richard Axel, medico, ha vinto nel 2004 il Nobel per la Medicina con Linda B. Buck per le sue ricerche sul sistema olfattivo. Dirige il «Mind Brain and Behavior Institute» della Columbia University.
22 giugno 2025 (modifica il 22 giugno 2025 | 11:53)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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