
Israele, l’Iran e la bomba atomica: due storie completamente diverse, diventate nel tempo l’intreccio delle minacce che gravano sul Medio Oriente e adesso al centro delle cronache di guerra. Israele costruì il suo programma nucleare in gran segreto grazie all’aiuto francese a partire dai primi anni Cinquanta e da subito con l’idea che servisse a impedire per sempre il rischio di «un secondo Olocausto». David Ben Gurion e gli altri leader fondatori dello Stato lo battezzarono: una forma di deterrenza assoluta, l’arma di tutte le armi che non avrebbe lasciato scampo a nessun nemico.
Fu un giovanissimo Shimon Peres a trattare con Parigi i protocolli segreti di Sèvres nel 1958, oliati due anni prima dall’alleanza israelo-franco-britannica nella fallimentare guerra per il Canale di Suez contro Nasser, che portarono alla costruzione del reattore di Dimona, nei bunker sotterranei del deserto del Negev settentrionale. Washington era assolutamente contraria. Il presidente Dwight D. Eisenhower aveva costretto gli israeliani a ritirarsi dal Sinai e dalla striscia di Gaza occupati nel 1956: non voleva avventurismi pericolosi che mettessero a rischio gli equilibri della Guerra Fredda con Mosca e soprattutto era contro la proliferazione nucleare. L’intelligence americana scoprì quindi il progetto di Dimona solo nei primi anni Sessanta, cercò allora di bloccarlo e di inviare gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Iaea). Vi riuscì a fatica nel 1965, ma per allora gli impianti sotterranei erano stati camuffati e l’ispezione si rivelò un flop. Il tema rimase bollente per lungo tempo a inquinare i rapporti Washington-Gerusalemme.
Soltanto l’amministrazione Nixon avrebbe poi accettato obtorto collo il fatto compiuto. Intanto l’atomica israeliana era una realtà. Nel 1967 sembra fossero una decina i missili a testata nucleare nei silos pronti al lancio. Secondo alcune fonti, si pensò allora a Gerusalemme di farne esplodere una nel Sinai come minaccia e deterrenza per fermare le truppe egiziane poco prima della travolgente vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni. Sei anni dopo, quando le truppe egiziane e siriane scatenarono la Guerra del Kippur, il governo di Golda Meir nel panico ordinò di aprire i silos di Dimona con i missili a testata atomica pronti per il lancio e ciò convinse gli americani ad avviare il ponte aereo per l’invio rapido delle armi convenzionali necessarie a ricacciare gli invasori.
L’Iran filo-occidentale nell’era dello Scià Reza Pahlavi si mosse invece più tardi sul nucleare rispetto ad Israele e alla luce del sole. Ma soprattutto lo fece in pieno coordinamento con Washington. Inizialmente si parlava dal progetto «Atoms for Peace» volto alla ricerca scientifica. Nei primi anni Settanta si pianificò la costruzione di una ventina di centrali nucleari, che producessero energia pulita a bassi costi per scopi puramente civili. In quell’era Israele e Iran stavano dalla stessa parte contro il mondo arabo. Però, tutto cambiò con la rivoluzione Khomeinista del 1979. La presa dei diplomatici americani in ostaggio nell’ambasciata di Teheran e la violenta predicazione antisionista segnarono una svolta radicale. Da allora la prospettiva di un’atomica al servizio del radicalismo islamico sciita divenne una preoccupazione costante per lo Stato ebraico, per gli Stati Uniti e per gran parte dei governi sunniti, con l’Arabia Saudita in testa. Dopo Khomeini, la guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei, ha più volte reiterato la necessità di «annullare Israele».
La destabilizzazione scatenata dalla rivoluzione verde a Teheran mise in evidenza ciò che prima era stato sottovalutato: la mancanza di regole e accordi condivisi rendeva il quadro altamente instabile. E il problema di fondo non è mutato. Le autorità israeliane non hanno mai neppure ufficialmente riconosciuto di possedere armi non convenzionali. Ne consegue che i governi di Gerusalemme non hanno aderito al Trattato internazionale sulla Non Proliferazione Nucleare (Npt), che dal 1968 cerca di limitare la minaccia. Teheran, al contrario, lo ha firmato, ma da dopo il 1979 non lo riconosce più. Le conseguenze sono evidenti: l’ambiguità regna sovrana e ciò crea le condizioni per la proliferazione incontrollata. L’Iran degli Ayatollah venne aiutato in segreto dal Pakistan e dalla Corea del Nord a sviluppare i suoi programmi nucleari.
In Israele, dove pure regna la libertà della società aperta, la censura ha il diritto di bloccare la pubblicazione di informazioni sul tema e addirittura perseguire giornalisti, scrittori, militari, funzionari dello Stato e chiunque confermi l’esistenza delle armi atomiche. Gli ispettori della Iaea non hanno mai messo piede a Dimona o in alcun altro sito nucleare. Oggi gli osservatori stranieri, evitando di citare direttamente le loro fonti in Israele, stimano che le bombe atomiche siano in un numero compreso tra 90 e 400 e possano essere lanciate dai missili anche di lungo raggio (si valuta che il modello più aggiornato del Jericho superi gli 11.5000 chilometri), dai sottomarini e dall’aviazione.
Nell’Iran Khomeinista la Iaea venne largamente limitata, ma continuò ad operare. La Russia nei primi anni Novanta inviò esperti nucleari a Teheran. Nel 2002 gli attivisti dell’opposizione iraniana all’estero denunciarono che il regime stava cercando di costruire l’atomica, puntando il dito contro la base di Natanz per l’arricchimento dell’uranio. I siti più importanti coi reattori e i depositi di uranio erano stati nascosti in profonde gallerie. L’anno seguente Khamenei emise una fatwa che metteva al bando le armi nucleari come «anti-islamiche». Tuttavia, Israele e Stati Uniti avanzarono subito seri dubbi che fosse davvero applicata e ciò indusse la comunità internazionale a intensificare le sanzioni. Negli anni seguenti la Iaea accusò reticenze e non collaborazione da parte iraniana: c’era il sospetto che esistessero programmi segreti di arricchimento dell’uranio per fini militari. Durante la presidenza di Mahmud Ahmedinejad la difesa del nucleare divenne parte integrante della rinascita nazionale e l’11 aprile 2006 fu lui stesso ad annunciare per televisione il degli scienziati per arricchire l’uranio. Da allora in poi tra gli ispettori internazionali e il regime divenne guerra aperta, apparve ovvio che l’Iran stava arrivando a grandi passi alla bomba atomica. I rapporti periodici della Iaea erano allarmanti.
Ma nel 2014 Barack Obama con i partner europei si impegnarono direttamente per giungere ad un’intesa con Teheran. Che fosse la svolta? In Europa tanti diplomatici ne erano convinti. Il 14 luglio 2015 fu firmato l’accordo che limitava la proliferazione nucleare iraniana con la supervisione internazionale. Nel gennaio 2016 venne annunciato che l’Iran aveva rispettato le intese e si potevano togliere le sanzioni. Ma nel 2018 il Mossad israeliano dichiarava di avere sottratto gli archivi nucleari nel distretto di Turquzabad a Teheran in cui si provava che in verità gli iraniani stavano segretamente continuando a costruire l’atomica. E ciò convinse Donald Trump a cancellare l’accordo di tre anni prima e reimporre le sanzioni. La diplomazia europea e larga parte della comunità internazionale criticò duramente quella scelta, che nei fatti marginalizzava l’Iran e spingeva i «falchi» del suo regime a riprendere i progetti nucleari in gran segreto. A nulla valsero la dichiarazione della Iaea nel febbraio 2019, per cui l’Iran stava ancora rispettando le intese. Nel muro contro muro, Teheran annunciò a maggio che il programma nucleare riprendeva in pieno, «senza limiti». Ciò coincise con una lunga serie di attacchi del Mossad contro i siti nucleari e gli scienziati iraniani che vi lavoravano.
Tra i morti eccellenti fu anche Mohsen Fakhrizadeh, il capo del progetto, assassinato a Teheran il 27 novembre 2020. Nel rapporto dell’Ottobre 2023 la Iaea segnalava che le riserve di uranio iraniane erano cresciute 22 volte rispetto al 2015 e che il lavoro degli ispettori era continuamente ostacolato. Concetti questi ribaditi anche negli ultimi giorni. Sebbene se non ci siano davvero prove concrete che l’Iran sia vicino ad avere la Bomba. «L’Iran stava veramente sviluppando l’atomica?», si chiede in prima pagina oggi il Financial Times, ricordando che è dal 2012 che Benjamin Netanyahu «cerca di convincere il mondo dell’imminenza della minaccia atomica di Teheran». L’aspetto paradossale di tutto questo è che, sino a prima dell’attacco a sorpresa israeliano di pochi giorni fa contro l’Iran, Donald Trump stava cercando di rimettere in piedi un’intesa sul nucleare non molto diversa da quella conclusa nel 2015 e da lui rotta nel 2018. E uno dei motivi politici per Netanyahu di attaccare adesso è stato proprio evitare che ciò potesse avvenire. Dal 2018 la domanda che ribadiscono gli iraniani non cambia: «Come mai Israele può avere l’atomica e noi no?».
Oggi in Israele nessuno parla apertamente di ricorrere all’atomica e l’accenno lo scorso novembre al suo utilizzo contro Gaza per parte del ministro Amichai Eliyahu è stato subito zittito dal governo, ma anche tra gli osservatori internazionali si stima che gli eventi delle ultime settimane possano indurre il regime iraniano ad accelerare il programma nucleare.
16 giugno 2025 ( modifica il 16 giugno 2025 | 11:16)
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