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Mercati versus Trump 4-0: perché il presidente sta perdendo la partita (e la credibilità) con il sistema finanziario

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Ci sono numeri più potenti persino del presidente degli Stati Uniti. Dall’inizio dell’anno i mercati azionari in America hanno perso circa 5.700 miliardi di dollari di valore, oltre due volte e mezza il prodotto interno lordo dell’Italia; dal loro picco di febbraio al punto più basso registrato due settimane fa, la distruzione di valore azionario negli Stati Uniti (senza contare i mercati del resto del mondo) era arrivata a 11.600 miliardi di dollari, qualcosa come il 10% del prodotto lordo del pianeta Terra.

Mercati vs Trump

Basta questo per spiegare il risultato della partita ingaggiata da Donald Trump contro il commercio internazionale e persino contro gli assetti delle istituzioni economiche nel suo stesso Paese. Il parziale, per il momento, è: «Mr. Market 4 – Donald Trump 0». La partita ovviamente non è conclusa, forse neanche il primo tempo lo è. Ma già per quattro volte in poche settimane i mercati azionari, valutari e del reddito fisso hanno piegato l’uomo più potente del mondo; hanno obbligato Trump a una rapida e improvvisa correzione di rotta. Per farsi un’idea basta ripercorrere all’indietro il film delle ultime settimane, partendo dalla fine: l’incontro che il presidente ha tenuto con la stampa nello studio ovale nella serata americana di ieri, che registra due vistosi arretramenti.

Gli attacchi contro Powell

Il primo riguarda la Federal Reserve e la tentazione della Casa Bianca di provare a sostituire il suo presidente, Jerome Powell, con una figura più controllabile dal potere politico. Trump negli ultimi giorni aveva definito Powell «Mr. Too Late» («Signor Ritardatario»), un «perdente» e lo aveva invitato in maniera pressante a tagliare i tassi d’interesse; soprattutto, aveva cercato di scaricare su di lui la colpa del percepibile rallentamento dell’economia americana e aveva affacciato la possibilità di una defenestrazione di Powell stesso, che peraltro sarebbe quanto meno molto discutibile sul piano della legalità costituzionale negli Stati Uniti. 

La fuga di capitali e la retromarcia

«Se lo voglio mandare via, sarà fuori davvero in fretta», aveva detto giorni fa Trump a proposito del capo della Fed. Il consigliere economico della Casa Bianca Kevin Hassets aveva aggiunto venerdì, sull’opzione del licenziamento del banchiere centrale, che «il presidente e la sua squadra continueranno a studiare questa questione». Stanotte la marcia indietro: «Non ho intenzione di licenziarlo», ha ripetuto tre volte Trump rispondendo a una domanda su Powell. Né è difficile capire perché: le minacce all’indipendenza della banca centrale avevano innescano una fuga di capitali dagli Stati Uniti e dal dollaro. Il biglietto verde aveva perso il 6% sul franco svizzero in appena quattro giorni e l’oro aveva registrato una performance di mercato del 40% superiore a quella della borsa americana dall’inizio della presidenza Trump, perché gli investitori si sono dimostrati molto rapidi nel mettere in dubbio il ruolo del dollaro come moneta dominante del sistema finanziario internazionale.

Il cambio di rotta sulla Cina

Sempre stanotte la seconda marcia indietro di Trump, stavolta sulla Cina e i dazi stratosferici al 145% imposti dopo un rapido giro di ritorsioni seguite al «Liberation Day» delle «tariffe reciproche» annunciate il 2 aprile scorso. Ieri la correzione di rotta, imposta dai crolli di borsa intervenuti nel frattempo. Trump ha detto: «Giocherò in modo carino con la Cina, non vedo l’esigenza di giocare duro – ha detto –. I dazi finali scenderanno in modo sostanziale e non saranno al 145%, anche se non saranno a zero». Da notare che da Pechino fino ad ora non erano giunte aperture, ma solo ulteriori ritorsioni, con dazi fatti salire in modo speculare al 125% sui prodotti importati dagli Stati Uniti.

Più che la linea dura della Cina, dev’essere stata quella dei mercati ad aver piegato la mano di Trump. Del resto, lo aveva già fatto almeno altre due volte nei giorni precedenti. Il 9 aprile il presidente ha «sospeso» per tre mesi i dazi «reciproci» su 184 Paesi, preferendo per il momento una tariffa più bassa e uguale per tutti del 10% in attesa di negoziati (il tutto è avvenuto al termine di una catastrofica settimana sui mercati, nella quale le vendite avevano iniziato a investire anche i titoli di Stato americani). E l’11 aprile sempre Trump aveva annunciato un’altra «esenzione», questa volta ai super-dazi contro la Cina, riservata ai soli prodotti di elettronica di consumo. Anche in questo caso, non è difficile capire perché: la californiana Apple, che produce circa l’80% dei suoi smartphone in Cina, aveva visto 650 miliardi di dollari della sua capitalizzazione di mercato volatilizzarsi in pochi giorni dopo l’annuncio dei dazi contro Pechino.

La lezione per l’Europa

Così per quattro volte in due settimane Trump ha sfidato i mercati e ha dovuto battere rapidamente in ritirata. Di sicuro, anche a seguito di enormi pressioni esercitate in privato su di lui dai grandi interessi finanziari e del Big Tech negli Stati Uniti. La carovana del presidente corre veloce ma continua a sbandare, sballottata da forze con le quali non aveva fatto i conti fino in fondo. Per l’Europa, che sui dazi si prepara a negoziare con lui, c’è qualcosa di cui prendere nota.  

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23 aprile 2025 ( modifica il 23 aprile 2025 | 12:14)

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