
«Nel mio studio gli unici due riconoscimenti appesi al muro sono le nomine papalicon le firme di Benedetto XVI e papa Francesco». Ivano Dionigi, professore emerito del’Alma Mater, già rettore, è stato anche il latinista di due Papi. Per dieci anni presidente della Pontificia Accademia di Latinità nominato prima da Benedetto XVI e confermato da Francesco. Poi Bergoglio lo indicò come consultore del Pontificio Consiglio della Cultura, incarico che ricopre attualmente.
Come è arrivato in Vaticano?
«Tutto è nato dal cardinale Ravasi, il presidente del Pontificio consiglio della cultura, impropriamente definito il ministero della Cultura. La Chiesa decise di istituire la Pontificia accademia della latinità, furono presentati i curricula e alla fine venne scelto il mio. Ratzinger si chiese se il rettore dell’Alma Mater avesse il tempo per occuparsi dell’incarico, per dire quanto conosceva la realtà dell’università italiana».
E Francesco?
«L’ho incontrato la prima volta a dicembre del 2017, lui era già stato a Bologna. Abbiamo commentato brevemente la sua visita di qualche mese prima, il suo discorso in San Domenico».
E l’ultima?
«Lo scorso novembre in occasione della plenaria dei consultori. Ho alloggiato a Santa Marta per tre giorni e alla fine abbiamo avuto udienza con lui. Doveva arrivare alle 9, ha tardato qualche ora perché era in udienza con la moglie di Zelensky e c’era un po’ di trambusto».
E come andò?
«Ci regalò una Corona del Rosario, l’ho data al mio nipotino. Quando ha saputo della morte del Papa ha subito chiesto».
Ma come mai il suo ruolo è così importante in Vaticano?
«Il latino fino al Concilio Vaticano II è stata la lingua della Chiesa. Fu Lutero a tradurre per la prima volta in volgare il testo sacro che non poteva essere toccato. Da lì viene anche l’idea della Chiesa romana conservatrice e quella luterana riformatrice. Chi non diceva la messa in latino veniva scomunicato, era la lingua dei padri, universale e immutabile come la fede. Una lingua che non si capisce alimenta anche il mistero. Poi il cardinale Montini, il futuro Paolo VI, prese in prestito le parole di Agostino: meglio che ci capisca il popolo piuttosto che rimproverino i professori. Da lì cambiò tutto».
Benedetto rilanciò il latino?
«La Pontificia Accademia di Latinità rilanciò la rivista Latinitas, abbiamo aperto ai ricercatori. Una parte della rivista era dedicata a chi voleva scrivere poesia in latino. Poi dovevamo tenere rapporti con università cattoliche e censire lo stato del latino, c’erano molte difficoltà. Almeno i futuri sacerdoti sarebbe il caso che lo conoscessero, la verità è che molti è già tanto se sanno bene l’italiano».
Il latino fu anche motivo di scontro tra i due Papi.
«Credo sia una lettura sbagliata. Diciamo che Benedetto aveva una grande sensibilità estetica. Stiamo parlando di uno che si è dimesso in latino. La cronista dell’Ansa fece uno scoop clamoroso, tanti cardinali non avevano capito».
Bergoglio non era così appassionato?
«Viene da un’altra formazione, lo conosceva bene ma non l’aveva nel dna. Però scriveva su Twitter in latino».
Ma lei è credente?
«Sono andato in Vaticano come professore di latino, casualmente ero rettore. Sul Corriere pubblicarono anche una lettera polemica».
Di un lettore?
«Diceva che era stato più facile farsi nominare in Vaticano che portare a termine la Staveco».
La battuta non è male.
«Sono credente nel senso del participio presente, è una questione contingente. I miei due libri della vita sono Lucrezio e la Bibbia. Sono stato per 9 anni in seminario, ho studiato grazie alla Chiesa».
È stato anche eletto in consiglio comunale dal Pci.
«Ma mai stato iscritto, sono stato eletto come indipendente, sapevano della mia appartenenza cattolica».
Diciamo che è un credente più vicino a Francesco che a Benedetto
«Ognuno è credente a modo proprio. Per Bergoglio la verità era nella carità, inutile credere se non sei per gli ultimi. Benedetto era un teoretico».
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23 aprile 2025 ( modifica il 23 aprile 2025 | 07:36)
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