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Emilio Isgrò: «La mia Sicilia, una formica operosa». A Scicli un nuovo grande Museo

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Soffrirebbe non poco il mio compagno di liceo Vincenzo Consolo se mi sentisse dire ancora una volta che io non sono sicilianista ma siciliano. Il mio amico Vincenzo era così sicilianista, infatti, che una volta dichiarò ai giornali che se al Nord avesse vinto la Lega del senatore Bossi, egli avrebbe abbandonato Milano in quattro e quattr’otto. Tanto che io, anni dopo, quando mi diedero l’Ambrogino d’oro come cittadino benemerito della Madunina, ebbi la sensazione di tradire la memoria dell’amico scrittore per l’immensa gioia che quel riconoscimento mi procurava.
Come fui felice, meno di un anno fa, quando il governatore del Veneto, Luca Zaia, mi mandò un affettuoso messaggio di complimenti per la Laurea honoris causa in giurisprudenza che l’Università di Messina mi conferiva. Né mi sono minimamente rammaricato tutte le volte che apprendevo dalla stampa o dai social di essere un artista lombardo o veneto, o addirittura lombardo-veneto, ma mai siciliano, per carità.

Per fortuna i siciliani di razza (essi sì cittadini del mondo!) non se la sono mai presa per la mia biografia da ramingo e da esule, richiamandomi più che volentieri in patria ogni qualvolta ritenevano che il mio impegno creativo potesse servire alla crescita culturale e civile della Sicilia.

La prima idea la ebbe Ludovico Corrao, il leggendario sindaco-senatore, affidandomi L’Orestea di Gibellina come spettacolo inaugurale delle Orestiadi, assieme a Gibella del Martirio, scritto appositamente per la grandissima Francesca Benedetti, e a San Rocco legge la lista dei miracoli e degli orrori, la «processione in versi» alla quale un anno collaborò Alighiero Boetti con uno splendido arazzo a strascico.

Neppure allora, tuttavia, me la sentii di fare il sicilianista. Neppure davanti alla prospettiva di scrivere un testo in siciliano come era nei programmi. Giacché, piuttosto che puntare su uno spettacolo vernacolare, come molti si aspettavano, misi le mani avanti dichiarando che per la mia trilogia avrei adottato il siciliano di Federico di Svevia, in pratica quel «volgare illustre» prediletto da Dante tra tutti i dialetti d’Italia come lingua della poesia. Solo che era impossibile stabilire quale fosse questo «volgare», visto che gli amanuensi pistoiesi o fiorentini avevano accomodato in dialetto toscano i manoscritti originali della Scuola siciliana.

Per di più, al momento di scegliere gli attori, io pensai, oltre a Mariano Rigillo che impastava le parole con il suo meraviglioso accento napoletano, anche a due formidabili attrici come la sofisticatissima meneghina Anna Nogara nei panni di Cassandra e la già menzionata Francesca Benedetti, una Clitennestra che parlava con una inspiegabile, inesorabile inflessione, forse marchigiana forse tedesca, difficile accertarlo. Quanto bastava, in altri termini, per dare allo spettacolo una dimensione straniata e straniante che decisamente lo liberava da ogni tentazione localistica e paesana.

Tanto che i registi tedeschi Peter Stein e Klaus-Michael Grüber, presenti alla prima e alle repliche, rimasero piacevolmente spiazzati e commossi da una Sicilia che era riuscita a trasformare il gusto dell’accumulo in una delle forme più potenti del barocco europeo.

Qualcuno era andato a lamentarsi con Ludovico Corrao per il mio scarso rispetto filologico del dialetto, evidentemente ignorando che tutte le lingue sono inventate dai poeti. Ma il sindaco di Gibellina mi abbracciò, gratissimo di ciò che avevo fatto. Finché un giorno, ricordandomi che egli aveva fatto parte in gioventù del governo Milazzo, il governo più sicilianista che l’isola abbia avuto in ottant’anni, gli dissi con un sorriso liberatorio: «Povero Ludovico, toccherà agli uomini come te compiere quell’Unità d’Italia che Cavour ha appena abbozzato».

È con lo stesso spirito che affronto ora la prova di Scicli, il gioiello barocco di una Sicilia del carrubo dimentica degli aranci e dei fichidindia. Non l’Opera dei pupi ma l’Opera delle formiche, non più la retorica sicilianista, bensì le umili formiche che offrono la loro intelligenza operosa a sostegno di un Paese che deve entrare tutto intero in Europa se vuole pesare qualcosa. Insomma la Sicilia che lavora e produce. Il tutto racchiuso in una mostra-installazione tendente alla teatralizzazione come gran parte della creatività contemporanea.

Giacché la Sicilia non può accontentarsi più di essere una metafora, lo specchio immobile del grande mondo, come fu costretto a vederla e rappresentarla Leonardo Sciascia nei suoi anni migliori. E come, sia pure con altri intenti, fu indotto a riconoscere Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il suo Gattopardo.

Allora, quando nacquero i capolavori di questi due scrittori, si sapeva bene dove stava il Nord e dove stava il Sud. Oggi non si sa più. Si profila, piuttosto, un Grande Meridione del mondo che capovolge la storia e la geografia insieme. La Sicilia è diventata, di fatto, il Nord di quel Sud petrolifero dove è nato Dio e dove si fanno le guerre in vista di una pace che prima o poi dovrà venire.

Quando recentemente, a cena, ho parlato di queste cose con un amico che di economia ne sa più di me, un uomo di banca e di finanza, coltissimo e attento ai mutamenti sociali, e probabilmente scettico sul futuro della nostra isola, egli mi rivolse uno sguardo insieme incredulo e affettuoso. Sicché è toccato a me fargli un po’ di coraggio, come in fondo lui sperava.

«Vedi, tu hai ragione», gli dissi, «ma io devo darti torto. Primo, perché i poeti e gli artisti si portano dentro una vocazione al mutamento che non permette loro di arrendersi all’evidenza. E niente proibisce che proprio la Sicilia sia finalmente pronta per un mutamento epocale. Abbiamo sbagliato restando fermi per troppo tempo. Vediamo cosa succede se ci muoviamo».

Il mio amico, che non è assolutamente un cinico, mi sembrò sollevato e persino compiaciuto che qualcuno osasse smentirlo. Tocca a noi artisti, infatti, ritrovare la calma e muoverci, così come il pianista continua a suonare nei saloon del Far West sperando che nessuno gli spari addosso.

L’inaugurazione il 5 maggio

Un museo del contemporaneo che nasce in un luogo radicato nella storia, uno spazio restituito alla comunità dopo sessant’anni di chiusura e un lungo e complesso restauro. È il Macc, il Museo d’arte contemporanea del Carmine che nasce a Scicli (Ragusa), nell’ex convento del Carmine. La riapertura, in programma lunedì 5 maggio alle 11.30, vedrà anche l’inaugurazione della grande mostra antologica dedicata a Emilio Isgrò, L’Opera delle formiche, a cura di Marco Bazzini e Bruno Corà. La mostra, aperta al pubblico dal 6 maggio al 3 novembre, è promossa dal Comune di Scicli con l’Archivio Emilio Isgrò e presenta opere del maestro siciliano dagli anni Sessanta fino alle più recenti ricerche intorno alla Cancellatura, oltre a una grande installazione, L’Opera delle formiche, che trasforma il grande corridoio centrale del museo: da qui, sciami di formiche, simbolo di operosità, irrompono nella piazza su cui si affaccia il complesso museale. Ad accompagnare la mostra, un volume, pubblicato da Allemandi, con i testi dei curatori e dell’artista e le immagini dell’allestimento.

L’artista

Gli esordi come poeta negli anni Cinquanta, nei Sessanta le prime «cancellature», che diventeranno la sua cifra: Emilio Isgrò è nato a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) il 6 ottobre 1937. Artista poliedrico (è anche autore di narrativa e testi per il teatro), ha partecipato per la prima volta nel 1972 alla Biennale di Venezia, tornandoci poi nel ’78, ’86 e ’93, e ha esposto e realizzato installazioni in Italia e fuori. Nel 2024 si è raccontato nell’autobiografia «Io (non) cancello», scritta con Chiara Gatti (Solferino).

La mostra

I primi «articoli di giornale» del 1962, le prime cancellature e «lettere estratte» degli anni Settanta fino alle recenti «cancellature in rosso». La mostra «L’Opera delle formiche» è un viaggio nell’immaginario di Emilio Isgrò, in continua evoluzione. Sono esposti lavori provenienti da importanti collezioni private, come quella di Gallerie d’Italia-Intesa Sanpaolo, oltre all’opera «Non schiacciatemi per favore», dedicata alla gentilezza, realizzata per la Fondazione Amplifon, sponsor della mostra. Ancora, il nuovo allestimento di «Non uccidere», ora nella collezione del Maxxi. simbolo di pace, e «La lumière de la Liberté», esposta per la prima volta nel 2017 alla Galleria Tornabuoni di Parigi.

17 aprile 2025 (modifica il 17 aprile 2025 | 16:32)

17 aprile 2025 (modifica il 17 aprile 2025 | 16:32)

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