
Giorni fa Vladimir Putin ha commentato i piani di Trump per l’annessione della Groenlandia. Li ha definiti «seri e storicamente fondati». Una dichiarazione forse un po’ laterale, eppure assai utile per capire dove tiri il vento geopolitico al solo leggervi in filigrana le «storiche» rivendicazioni russe sull’Ucraina. La Cina ha poi provveduto a dissipare gli ultimi dubbi in materia, dispiegando attorno a Taiwan navi e aerei per esercitazioni «a fuoco vivo». Con un’intimidazione più pesante che mai, per vedere l’effetto che fa. A ciascuno il suo feudo.
Ciò che può accadere come conseguenza di una capitolazione totale o parziale di Kiev è, insomma, già sotto i nostri occhi. Poco cambia se avrà quale premessa la veloce consegna a Mosca di un’Ucraina annichilita oppure se sarà l’esito di un processo a tappe magari contraddittorio ma segnato dal fil rouge dello sganciamento americano già in atto. E non ci riferiamo, qui, all’evidente pericolo per l’Europa di avere alle porte un dittatore con smanie egemoniche senza più la valorosa resistenza ucraina a farle da scudo. Stiamo parlando piuttosto del crollo di un tabù strutturato dopo la Seconda guerra mondiale e, almeno in teoria, valido erga omnes: l’illiceità delle conquiste territoriali. È niente di meno che questo l’ordine planetario sabotato da Trump con l’abbandono della distinzione tra aggredito e aggressore e con l’umiliazione inflitta a Zelensky nello Studio Ovale. Oltre le porte del caos, c’è il ritorno della guerra di occupazione.
Si trova sempre un appiglio storico o etnico per giustificare un atto di forza, come Hitler fece nei Sudeti. La Carta delle Nazioni è nata nel 1945 proprio in risposta a queste logiche: statuendo principi come l’integrità territoriale, la sovranità, la non ingerenza negli affari interni altrui. Certo, si dirà, il diritto internazionale è pur sempre la legge dei vincitori e porta con sé una cifra di ipocrisia: si guardi, ad esempio, all’invasione dell’Iraq perpetrata nel 2003 con pretesti e menzogne proprio dagli Usa, che pure sono stati negli anni i massimi garanti della tenuta del sistema.
E tuttavia l’Ucraina può costituire un salto ulteriore, al di là delle ovvie considerazioni morali: specie se non approdassimo soltanto a una situazione de facto, deprecabile ma senza crismi formali. Putin vuole di più. E la politologa americana Tanisha Fazal ci mette in guardia su Foreign Affairs dai rischi di un trasferimento di territorio sancito anche da qualche tipo di riconoscimento internazionale, com’è probabile nel caso di un accordo tra Stati Uniti e Russia. Non ci appaia un bizantinismo: sarebbe proprio il sigillo legale a rendere più perniciosa l’illegalità, giustificando gli appetiti di Stati revisionisti sui confini più esposti. Potrebbe accadere nelle porzioni della Guyana ambite dal Venezuela. Nel Mar Cinese meridionale e in quello orientale, sotto l’influenza aggressiva di Pechino. O, ancora, in Mongolia, Nepal, Bhutan. Nelle regioni africane più instabili. E, naturalmente, in quelle ex repubbliche sovietiche che, liberatesi dal giogo di Mosca, potrebbero ricadervi in fretta a causa del revanscismo putiniano.
Putin non ha mai nascosto troppo una natura da criminale di guerra. Ventidue anni fa, per le elezioni parlamentari, pur spacciandosi da alleato euroatlantico, fece tappezzare Mosca con poster di personaggi della storia russa: tra zar e principi guerrieri celebrati per l’aggressività bellica, spiccava Stalin, non russo ma georgiano, da lui ammirato come padre della «compianta» Unione sovietica. È Putin il maggior fattore di entropia, ma non è certo l’unico, anche a causa della deriva d’inutilità presa dal più nobile baluardo del diritto internazionale mai concepito: le Nazioni Unite. Impantanatosi nello iato tra legalità e forza cogente, l’Onu è finito per diventare un costoso consesso morale influenzato dai peggiori tiranni del pianeta. L’imbarazzante inchino del suo segretario generale in omaggio a un Putin ricercato dalla Corte penale internazionale ha fotografato, al summit dei Brics dello scorso ottobre, la crisi dell’organizzazione con la potenza di una sola immagine.
Se il caos incombe, l’isolazionismo trumpiano, con l’idea di tornare ai vasi non comunicanti di Yalta (e a uno spezzatino di dazi), appare davvero fuori dal tempo. Che il disordine globale non risucchi infine anche gli Stati Uniti, le sue imprese e le sue rappresentanze, i suoi soldati e i suoi interessi ramificati ovunque è un’illusione: così stupida da iniziare a spaventare gli stessi americani. «Le prossime generazioni ci chiederanno: voi dove eravate?», ha tuonato ai senatori il democratico Cory Booker nel più lungo discorso di filibustering mai pronunciato a Washington. Molti hanno capito che la domanda non riguardava solo loro.
6 aprile 2025
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