Salviamo il clima dai profeti

di GIAN ANTONIO STELLA Apocalittici e negazionisti non risolvono il problema. Esce martedì 15 per Solferino il nuovo saggio di Abravanel e D’Agnese, che sul tema individuano quattro grandi ipocrisie

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Se «la guerra è una cosa troppo seria per affidarla ai militari», come disse George Clemenceau, l’apocalisse climatica è troppo seria per fidarsi degli apocalittici. Peggio ancora, però, è buttarla in caciara come quanti ridono degli allarmi degli scienziati sostenendo che «non imbroccano una previsione del tempo a due giorni ma ci dicono cosa succederà al pianeta tra cent’anni» o che il problema del clima «l’ha inventato Bill Gates in combutta con i cinesi per venderci pannelli solari e auto a batteria».

I dati scientifici, infatti, spiegano Roger Abravanel e Luca D’Agnese in Le grandi ipocrisie sul clima. Contro i burocrati della sostenibilità e i nuovi negazionisti del clima (edito da Solferino, in libreria dal 15 ottobre) non lasciano dubbi: «Già oggi in Iraq e nei Paesi del Golfo Persico temperature che superano i 50 gradi provocano il divieto per legge di lavorare all’aperto tra le 11 e le 17, e le previsioni dicono che, entro il 2035, in un Paese molto più popoloso (e più agricolo) come l’India non si potrà più lavorare all’aperto in molti giorni l’anno, con profondi sconvolgimenti socioeconomici». Rischi concreti. La guerra in Siria, ad esempio, secondo Ian Bremmer autore di The Power of Crisis, fu lo sbocco di una terribile siccità nel Nord del Paese: «Tre quarti dei contadini persero il raccolto e Damasco non poté fare nulla per aiutarli, così centinaia di migliaia di persone si riversarono nelle grandi città, creando enormi tensioni esplose nel 2011 con la Primavera araba prima e la guerra civile poi costata la vita a mezzo milione di persone».

Le siccità ci son sempre state, sbuffano i negazionisti. Vero. Gli studi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, però, dimostrano che sì, i «cicli di riscaldamento e glaciazione sono sempre esistiti», ma l’accelerazione degli ultimi decenni porta la firma dell’uomo e in particolare alcuni «grandi peccatori», su tutti gli Usa e l’Europa. Così come la rivista «Scientific Reports», analizzando 300 mila documenti e 174 milioni di parole ha accertato chi finanzia campagne negazioniste: «Le grandi compagnie fornitrici di combustibili fossili». Quelle americane solo tra il 2000 e il 2017 hanno investito «3 miliardi di dollari per opporsi alla legislazione sul cambiamento climatico».

Il rischio più grosso, oggi, è «la tentazione di rinviare». Ignorando il monito del «tubo che perde»: aprire il muro e ripararlo costa, ma ogni giorno che passa costerà sempre di più. E il problema è aggravato, scrivono Abravanel e D’Agnese, da «quattro grandi ipocrisie». La prima è dei «nuovi negazionisti», che «riconoscono che il cambiamento climatico è un grave problema, distinguendosi così dai negazionisti “duri e puri”, ma che in realtà trovano mille ragioni per rinviare le iniziative concrete necessarie per combatterlo oggi». La seconda ipocrisia è «della politica che, pur dichiarandosi sensibile al problema, spera di risolverlo senza impegnare soldi pubblici, in questo alleandosi con altri grandi ipocriti nel mondo della finanza, che dichiarano che la finanza privata delle loro alleanze per il clima salverà il pianeta». La terza, quella «delle imprese che investono nella sostenibilità quel tanto che basta a non finire in fondo alle classifiche Esg (environmental cioè ambiente, social, governance, ndr) che pensano che con un po’ di burocrazia si possa ripulire la coscienza» sprecando il denaro dei loro azionisti «quando non finiscono per perdere la faccia tra accuse di green e socialwashing». Quarta, quella «di accademici, presunti guru del management e consulenti, da Harvard in giù, che sostengono di voler reinventare il capitalismo per renderlo sensibile ai problemi del pianeta e della società…».

Sia chiaro, la coscienza del problema è sempre più diffusa: «Il “Financial Times” ha rilevato che, mentre tra il 2005 e il 2013 il tema della sostenibilità appariva solo nell’1% delle earnings calls», «sondaggi» delle aziende quotate in borsa, nel 2021 l’attenzione al tema si era già moltiplicata per 25. Tanto da spingere le multinazionali a prenderne atto. E se un secolo fa il Moma fu fondato dai Rockfeller per ripulire la loro immagine dopo il processo per il massacro dei minatori (molti italiani) in sciopero a Ludlow, larga parte dei colossi planetari investono oggi sempre di più (a dispetto di Milton Friedman che teorizzò: «La responsabilità sociale del business è quella di aumentare i suoi profitti») in progetti di sostenibilità sociale. Un dato per tutti: «Nel 1992, solo 26 grandi aziende pubblicavano un Csr report: nel 2008, erano diventate 3.000 (solo negli Stati Uniti)».

Per capirci: sotto pressione, «le imprese diventano responsabili di tutto ciò che ruota attorno a esse, anche lontano. (…) Per esempio Ferrero, la grande multinazionale italiana dell’alimentare, ha ripensato in modo sostenibile tutta la sua supply chain nelle nocciole e nel cacao». E «non perché i ceo di Nike, Nestlé, Ferrero e Unilever si sono improvvisamente risvegliati con impulsi di bontà nei confronti del loro personale e dei loro fornitori, ma perché nel mondo della comunicazione globale, i media e i consumatori dei loro mercati sono molto più sensibili alle condizioni di lavoro e di vita di chi produce le scarpe che indossano o il caffè che bevono». Rispettabilità is business.

Di più: «L’emergenza climatica sta spingendo grandi aziende tecnologiche come Amazon, Microsoft e Google a investire in energie rinnovabili per i loro data center che consumano enormi quantità di energia». Un dato: quello della sola Amazon «ha superato i consumi della Norvegia». Non c’è alternativa all’energia rinnovabile: non c’è. Il nodo è: chi paga? «Stati Uniti, Europa e i Paesi dell’ex Unione Sovietica, che rappresentavano il 55% delle emissioni, sono scesi al 35%, mentre sono esplose quelle della Cina e dell’India, e cominciano ad aumentare quelle degli Stati africani». Quindi? A chi tocca impegnarsi? A tutti. Chi più ha, ovvio, più deve mettere. E il conto sarà salatissimo: «Investire in fonti rinnovabili e riparare ai danni (alla salute e alle cose) provocati dalla siccità, dagli uragani e dal caldo eccessivo ci costerà il 5% della ricchezza globale». Una enormità. Eppure…

Eppure il percorso virtuoso è partito. In Europa e negli Usa, gli investimenti in centrali a carbone si sono quasi azzerati, quelli nelle fonti rinnovabili son cresciuti 13 volte più dell’economia mondiale, l’80% dell’energia in Paesi come la Spagna è carbon free, chi ha creduto nell’auto elettrica come Tesla vale oggi dieci volte la Volkswagen o tre volte la Toyota… Insomma, su con la vita…

Ma il paesaggio? Qual è il prezzo da pagare a selve di pale eoliche e distese di pannelli solari? «L’impatto sul paesaggio delle rinnovabili esiste», rispondono gli autori de Le grandi ipocrisie sul clima, «ma quello derivante dal cambiamento climatico rischia di essere ben peggiore»…

Il volume

Sarà in libreria da martedì 15 ottobre il libro di Roger Abravanel e Luca D’Agnese Le grandi ipocrisie sul clima. Contro i burocrati della sostenibilità e i nuovi negazionisti del clima. Il volume è edito da Solferino (pp. 288, euro 19,90). Con la prefazione di Francesco Starace Roger Abravanel è director emeritus di McKinsey, consigliere di amministrazione di aziende dove guida comitati sulla sostenibilità. È editorialista del «Corriere della Sera» e saggista. Luca D’Agnese è direttore Cdp Infrastrutture, Pa e Territorio, Cassa Depositi e Prestiti. Si occupa di advisory in ambito infrastrutturale

8 ottobre 2024 (modifica il 8 ottobre 2024 | 20:49)

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