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Chiusa la Buchmesse e il fuori-Buchmesse, smontati gli stand, rientrate le delegazioni ufficiali e quelle alternative, fatti i bilanci (tutti provvisori), che cosa resta di questa settimana di polemiche della cultura italiana? Roberto Saviano, che è stato il casus belli dopo la sua esclusione dalla delegazione ufficiale, ne parla con il «Corriere».
Il commissario straordinario per il governo Mauro Mazza ha reso palese la rottura con i vertici della Buchmesse che l’hanno accolta, e ha detto che non poteva invitare chi aveva insultato la presidente Giorgia Meloni…
«La cosa che i tedeschi hanno ribadito durante tutta la fiera è che non si può escludere un intellettuale perché è in disaccordo, anche radicale, con il governo. Non solo non ho insultato Meloni, ho stigmatizzato il suo comportamento disumano e feroce. E benché condannato a pagare una multa, la giudice scrive che ho fatto quelle dichiarazioni, che ho superato “la continenza verbale”, per motivi morali. Nell’intervista per cui sono stato portato a processo definivo bastardi tutti i politici che portano avanti politiche xenofobe. Il mio è stato uno stigma, che continua, su come viene gestita, con menzogne, la pratica migranti. E per questa ragione loro hanno fatto e continuano a fare censura. In Germania questo ha generato scandalo».
C’è chi pensa che questo e altri episodi, come la cancellazione del monologo di Scurati alla Rai, possano essere frutto più di uno zelo preventivo da parte di chi è nell’ingranaggio operativo.
«Su di me c’è un veto. Quando è uscito un mio libro alcuni amici mi dicevano che non potevano invitarmi perché c’era un blocco. Su Scurati e Nadia Terranova il veto è stato sui temi: non si doveva parlare degli scontri di piazza e della repressione nel caso di Terranova; non si doveva parlare del fascismo nel caso di Scurati. E anche questo la stampa democratica tedesca l’ha osservato molto bene».
All’incontro del Pavilion ha detto provocatoriamente: «Questa è la mia vendetta» indicando la sala gremita.
«Era una boutade per dire: hanno provato in tutti i modi a delegittimare, a insinuare, a togliere risorse, ad infangare, ma non ci sono riusciti. Le sale piene, l’attenzione costante, sono dovuti al rigore, alla ricerca, al fatto di tenere lo sguardo sul potere, sul racconto dei miei temi. Chi mi denigra non è riuscito a compromettere quello che io sono. Non avrebbero mai voluto che fossi a Francoforte proprio per questo: per cercare di divellere la credibilità delle parole. È quello che fanno costantemente, è il compito esatto dei media e delle figure legate a questa destra. È stato un onore per me stare alla Buchmesse. È stato anche molto bello, come non mi capitava da tempo, vedere tanta passione, tanta solidarietà, tanta curiosità in un Paese che è spaventato da quello che sta succedendo in Italia, perché potrebbe succedere anche lì. La Germania guarda l’Italia come un laboratorio sinistro: un Paese con istituzioni fragili, con una burocrazia lenta e corrotta, con una affermazione precaria dei diritti, un certo tipo di giornalismo soggetto al ricatto della politica. Quindi come anticipatrice di tutte le contraddizioni e i pericoli della democrazia. La maggior parte degli scrittori italiani invitati hanno raccontato questa trasformazione in democratura. E se tutte le istituzioni che mi hanno invitato — il Pen, il Premio per la Pace assegnato ad Anne Applebaum, la Buchmesse, le televisioni — hanno cercato di capirlo, cos’altro deve accadere perché ce ne rendiamo conto noi»?
Alla cerimonia finale, Mazza ha criticato pubblicamente il direttore della Buchmesse Jürgen Boos per non essere mai andato al Padiglione italiano.
«Credo sia stato l’unico caso. E Mazza dovrebbe farsi qualche domanda sul perché. Penso che il comportamento censorio e l’uso di quello spazio come propaganda al governo abbia infastidito la Buchmesse. Da più parti la lamentela era che il governo avesse messo ai vertici persone senza esperienza culturale e editoriale».
Sui social ha definito la partecipazione italiana «una modesta e pacchiana rappresentazione che ha lasciato solo disgusto, diffidenza e vergogna». Non si rischia di svalutare anche il lavoro di editori, agenti, di scrittori che hanno partecipato al programma letterario del Padiglione?
«Ovviamente mi riferisco a tutta la messa in scena politica, a come il ministero della Cultura italiano e il commissario hanno organizzato la cosa. Una retorica insopportabile, con toni da propaganda, senza mostrare concretamente una visione di come si intende sostenere la cultura, l’editoria, la lettura. Editori e intellettuali sono stati mortificati da questa organizzazione, da questa cornice politica».
Se l’avessero invitata subito nella delegazione italiana, sarebbe andato?
«Non lo so. Forse sarei andato, con alcuni miei amici scrittori avremmo portato avanti delle istanze. Perché no? Io sembro barricadero, ma è tutt’altro. La mia vocazione è quella di narrare, raccontare, divulgare. Sulle barricate ci sono finito».
Perché alla destra interessa così tanto questa nicchia? Marcello Veneziani ha consigliato provocatoriamente alla destra una ritirata assoluta dalla cultura, un «subappalto implicito alla sinistra di tutto quel mondo e dei suoi affluenti»…
«L’egemonia culturale non può essere imposta. La qualità culturale cresce dal basso, si sedimenta negli anni, direi, nei secoli. E quello che stanno facendo loro non ha, tra l’altro, nulla a che fare con l’impegno di voler confrontarsi su idee diverse. Io stesso mi sono formato negli anni sui classici che loro spesso citano, Cioran, Ernst Jünger. Ho letto moltissimo Evola, Henry de Montherlant. È fondamentale: confronto, apertura, dibattito. Ma loro vogliono censurare, bersagliano individui, sottraggono risorse, occupano teatri. Nemmeno prima la cultura era una dinamica idilliaca, la situazione è drammatica da tempo. Ma qui non c’entra nulla l’idea di lasciare la ridotta alla sinistra. La cultura dell’estrema destra è nella banalità dei social, nell’orrore dell’estremismo, nel continuo tifare. Quello che stanno facendo non è creare un’alternativa, è semplicemente un atto autoritario contro i nemici. Storici dell’arte, romanzieri, un tempo prendevano posizione una o due volte l’anno, quando era necessario. Adesso con i social sono invitati a intervenire ogni giorno, su tutto, con le prime informazioni, alle condizioni pretese dall’algoritmo. E questo non è il compito dell’intellettuale, è il compito dell’attivista».
A Francoforte si è parlato molto dell’impegno civile dello scrittore. Nicola Lagioia ha detto che però non è un dovere e che si fa politica anche scrivendo libri impolitici.
«Concordo in parte con Nicola, che è un amico. Io credo che ogni opera abbia una caratteristica politica. Cambia l’obiettivo, l’ingaggio, la dinamica, ma anche un libro di intrattenimento conserva in sé una traccia del suo tempo, una visione della realtà. Poi esistono autori, come Ahmet Altan, che non scrive libri contro Erdogan e in Turchia viene condannato all’ergastolo per i suoi romanzi. E c’è l’autore che, invece, prudentemente, mette il suo corpo al riparo. Non ne faccio una questione di valori. Amo Tommaso Landolfi, considerato non impegnato, e amo Corrado Stajano, scrittore realista, civile, di immenso valore. La differenza è la decisione sul proprio corpo, come l’hai messo a disposizione, su che battaglia, pagando quale prezzo».
22 ottobre 2024 (modifica il 22 ottobre 2024 | 08:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
22 ottobre 2024 (modifica il 22 ottobre 2024 | 08:42)
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