Nobel per la Letteratura 2024: la prosa leggera e crudele di Han Kang stringe come un nastro di seta

di MAURO COVACICH Le eroine dell’autrice premiata da Stoccolma si spingono allo stremo, a piccoli passi. Senza accorgerci ci trascinano in terre incognite

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La voce di Han Kang (Premio Nobel per la Letteratura 2024) è limpida, almeno quanto risulti inquietante. Dopo La vegetariana, il suo successo è stato planetario, ma la scrittrice sudcoreana ha inscritto nello stile la cifra della sua universalità. È una scrittura che parla al mondo. Incredibile pensare al viaggio che debba compiere il suo pensiero per arrivare a noi attraverso gli abissi culturali e linguistici che ci dividono da lei, eppure, per lontano che sia il bersaglio, la freccia lo raggiunge a ogni tiro. È il mistero del linguaggio, forse uno dei suoi doni più inaspettati. Proprio nella letteratura, dove la ricerca espressiva connota più di ogni altra cosa la peculiarità di un autore, ecco l’affermarsi di una forma priva del benché minimo artificio, uno stile al grado zero, che viene senz’altro dalla cultura del buddismo zen e possiede di questa il candore letale. Una scrittura che scorre silenziosa come un nastro di seta, senza lasciare un solo appiglio, avvolgendosi con leggerezza attorno alla mente di chi legge, producendo uno strano solletico, fino alla stretta finale.

Le protagoniste delle storie di Han Kang si spingono allo stremo, ma lo fanno a piccoli passi, comunicando nel movimento un’illusione di immobilità. La loro radicalità non è mai eclatante, si rivela quando ormai siamo stati trascinati in un territorio incognito senza esserci accorti di nulla. È una trappola efficace sui lettori di ogni continente, che agisce proprio grazie alla familiarità apparente di quella lingua così piana, così pacata, così volutamente modesta. Non sarà certo un caso se la donna al centro de L’ora di greco cerca di guarire dalla sua afasia attraverso l’accesso a un universo massimamente esotico: sembra un paradosso, ma solo in quello straniamento estremo, che è verbale, fonetico e quindi anche fisico, può sperare di sentirsi a casa. Lo straniamento, l’esperienza dell’estraneo che ci abita, è il tratto dominante di Han. A ogni latitudine l’animo umano è un mondo alieno che va allestito senza alcun elemento decorativo, questo sembra dirci la novella vincitrice del Nobel.

Han Kang appartiene a una particolare schiera di scrittrici contemporanee che fanno un uso per così dire benefico della crudeltà. Sto pensando a Annie Ernaux, Olga Tokarczuk, Svetlana Aleksievic, Jamaica Kincaid, Ágota Kristóf. Essere crudeli, per queste scrittrici, significa spingersi in luoghi dell’animo umano da cui si preferirebbe tenersi alla larga, significa guardare con franchezza — e anche con quell’ingenuità necessaria a ogni sospensione di giudizio — dentro il pozzo nero che ci portiamo dentro, quel mare ghiacciato che Kafka voleva infrangere a colpi d’ascia. Ma la loro è una crudeltà anche nel senso con cui questo termine veniva usato da Antonin Artaud a proposito del suo teatro: una scrittura che fa piazza pulita di tutto ciò che è rappresentazione, in modo da rendersi essa stessa performativa. Una scrittura che agisce.

A tutto questo Han Kang aggiunge una nota orientale, forse tipicamente sudcoreana, a giudicare dalla prossimità del suo lavoro alla filmografia di giganti come Kim Ki-duk o Park Chan-wook (pensiamo al film Old boy, dove il protagonista viene rinchiuso per quindici anni in una camera d’albergo senza sapere di chi sia prigioniero né perché). Ma soprattutto Han Kang risente della lettura di Franz Kafka, la questione della colpa, la colpa costitutiva del vivente, è onnipresente nei suoi romanzi. Ovunque si nasca, per sopravvivere bisogna esercitare una forma di violenza: la semplice violenza di essere venuti al mondo, nell’ottica occidentale (Anassimandro), la violenza di strappare le cose alla natura, nell’ottica buddista. Così per La vegetariana, la scelta alimentare è il primo passo di un’ascesi ben più estrema, è l’inizio di un percorso di trascendimento, la via per cominciare a liberarsi degli orpelli, dei trucchi, degli ornamenti e poi via via anche del peso del corpo, anelando una vita fatta di aria e luce. Il progetto irresistibile di occupare meno spazio possibile, di fare meno rumore possibile, l’ideale invisibilità della vita vegetale, un solo respiro al giorno, inspirare bene quando nasce il sole, espirare bene quando il sole muore. Non è solo una questione di essenzialità. È un canto alla purezza, alla vertigine. Oltrepassare il corpo, diventare pianta, lo sproposito della sfida più sinistra pronunciato a fior di labbra. Una dolcezza terrificante.

Non ci sono spiegazioni nelle storie di Han Kang, neanche in
Atti umani, forse il suo libro più bello, dove si racconta del colpo di Stato a Seul del 1980 e della strage che ne seguì, nulla sembra essere l’effetto di qualcos’altro, ogni cosa accade e basta. Come dice Byung-Chul Han nella Filosofia del buddhismo zen: «Il mondo è libero da invocazione e nostalgia. Perciò ha un’aria insapore. Questa intensa assenza di sapore è proprio ciò che costituisce la sua profondità». Han Kang è l’incarnazione lirica di questo pensiero. Niente a che vedere con il bisogno di radici e terra e sangue, né tantomeno con la seduzione dei dialetti, nei quali trovare magari un effetto dopante di genuinità. Al contrario, in Han Kang siamo di fronte a una scrittura tradotta dal capo opposto del mondo, la cui apparente neutralità smuove i sentimenti più reconditi.

Piccola nota personale: ho avuto la fortuna di conoscerla a un forum di autori europei e coreani organizzato alla Sapienza di Roma nel 2014. Abbiamo condiviso un pranzo frugale (in cui non ho fatto caso se mangiasse carne) e un panel a quattro nel pomeriggio. La sua grazia e la sua timidezza la rendevano al tempo stesso scoperta e impenetrabile. Mai ho apprezzato una simile corrispondenza tra arte e vita.

10 ottobre 2024 (modifica il 10 ottobre 2024 | 22:39)

10 ottobre 2024 (modifica il 10 ottobre 2024 | 22:39)