
Alla vigilia degli incontri tra Steve Witkoff — inviato speciale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump — e le autorità russe, la premier Giorgia Meloni ha auspicato che «Mosca offra a sua volta un fattivo contributo al processo negoziale».
Lo riferisce una nota di Palazzo Chigi, dopo la conversazione telefonica che Meloni ha avuto ieri con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e altri leader europei per fare il punto sugli incontri in corso in Florida tra le delegazioni statunitense e ucraina sul percorso di pace in Ucraina.
Alla conversazione telefonica — oltre a Zelensky e alla premier italiana — hanno partecipato anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, quello del Consiglio europeo, Antonio Costa, il segretario generale della Nato, Mark Rutte e i premier di Regno Unito, Polonia, Olanda, Norvegia, Finlandia e Danimarca.
La call è durata circa 40 minuti, e Meloni è intervenuta «sottolineando l’approccio costruttivo sempre dimostrato dal presidente Zelensky». E questo dopo aver ribadito un concetto che almeno da un anno è il punto che le sta più a cuore: l’importanza della «convergenza di vedute tra partner europei e Stati Uniti quale fondamento per il raggiungimento di una pace giusta e duratura».
Ma di là delle note ufficiali, nel governo trapelano anche sfumature critiche sui negoziati in corso. Se a Berlino e a Parigi mettono in chiaro che nessun piano può essere adottato sopra la testa degli europei — decidendo cioè cosa debba accadere in Europa senza che la Ue sia protagonista del negoziato — anche nella nostra diplomazia affiorano dubbi.
Non pochi ad esempio — anche alla Farnesina — sono molto scettici sulle garanzie di sicurezza che sin qui sono emerse dai colloqui, sia quelli svolti a Ginevra che quelli attualmente in corso in Florida. E se Meloni a margine del G20 si era detta soddisfatta perché nel piano americano veniva ripresa un’idea che lei ha sempre portato avanti — quella di dare uno scudo Nato, con le garanzie dell’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza, anche a Kiev — adesso anche a Palazzo Chigi c’è chi storce il naso. Uno dei punti forti dell’articolo 5 del Trattato infatti è l’automatismo della catena di comando: ad un atto di guerra, reagiscono i vertici militari della Nato, senza dover consultare il livello politico.
E questa dinamica è legata alla geografia, molto chiara, dei confini Nato. Su entrambi i punti invece, per l’Ucraina, almeno al momento, sarebbe tutto meno chiaro. E sono forse questi i dettagli a cui si riferiscono le diverse cancellerie europee, compreso il nostro governo, quando invocano delle «solide» garanzie di sicurezza.
Di Ucraina si è discusso ieri a Palazzo Chigi anche in un incontro pomeridiano fra la premier e il primo ministro della Repubblica di Bulgaria, Rossen Jeliazkov.
Il colloquio ha permesso di definire le prossime tappe del rafforzamento del partenariato tra Roma e Sofia. Mentre «ampia convergenza è emersa anche sui principali dossier internazionali, a partire dall’Ucraina, e su tematiche europee, quali il bilanciamento tra transizione verde e competitività, le soluzioni innovative per l’immigrazione e il processo di allargamento dell’Unione».
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2 dicembre 2025
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