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Ad eccezione di quelli con i figli, i grandi incontri della vita manifestano la propria rilevanza solo successivamente; e magari all’inizio passano addirittura inosservati, o sono di segno opposto. Il migliore amico sui banchi di scuola che era perfino antipatico; l’amore di una vita che sembrava insignificante, un maestro indimenticabile che pareva uno scoglio sulla via del diploma. Succede.
Il metro per giudicare l’importanza reale di un incontro, la deflagrazione lenta e rivoluzionaria che ha portato nel flusso dell’esistenza, è cercare di ricordare chi si era prima; quali sogni, quali aspirazioni si avevano, e quale futuro si prevedeva per sé stessi. Il cambiamento, quello vero, si capisce dopo.
Alle porte dell’uscita di questo romanzo, Volver, mi ritrovo a interrogarmi su Ricciardi e su me stesso: e scopro di avere più risposte che domande, sfogliando le istantanee, che il cuore più che la mente mi restituisce, di questi vent’anni in cui tutti e due siamo profondamente cambiati, ognuno nel suo tempo e ognuno nel suo mondo, legati da questo filo stretto e fortissimo che ci unisce ma che ci mantiene lontani. Io Ricciardi, sapete, lo guardo vivere da una finestra, come un vicino di casa di cui si sanno molte cose ma che non si è mai formalmente presentato. E adesso che questa finestra sta per chiudersi, almeno su quella fetta della sua esistenza che ho finora raccontato, posso chiedermi che cosa siamo stati l’uno per l’altro. E che strada tortuosa e accidentata abbiamo percorso, per arrivare fin qui.
Chi ero io quando l’ho incontrato, quindi. Che idea avevo del mio presente, che cosa immaginavo del mio futuro.
Un felicemente grigio e anonimo funzionario di una grande banca. Dico felicemente perché quella che dall’esterno si chiama piattezza e mediocrità, vista dall’interno costituisce il raggiungimento di una relativa serenità, che non è affatto poco. Quarantotto anni, due figli, una casa e i fine settimana a disposizione per una pizza e un cinema, naturalmente la partita di campionato. Senza imprevisti, una gestione economica soddisfacente: niente risparmi, ma un livello accettabile di vita. E i libri, i miei cari inseparabili mondi di carta da visitare, milioni di chilometri e di anni da percorrere con la mente, il mio irrinunciabile modo di passare il tempo.
L’ho incontrato allora, Ricciardi: a bocce ferme, in assenza di altre aspirazioni se non giocare il mio finale di partita facendo melina a centrocampo, buttando qualche palla in tribuna in caso di necessità, per arrivare con un risultato accettabile al fischio finale.
Lui se ne stava seduto, in forma eterea, a un tavolino del caffè Gambrinus, storico locale della mia città nel quale si teneva un concorso letterario al quale ero stato iscritto per scherzo da alcuni colleghi. Lo rivedo come fosse adesso, una tazza in mano dalla quale veniva fuori un lieve vapore, il soprabito col bavero rialzato, una ciocca sulla fronte. Magro, affilato, gli occhi perduti nel vuoto dietro la vetrina. Una gamba accavallata sull’altra, pantaloni di un colore indefinibile tra il grigio e il beige, scarpe nere un po’ consumate. Mi ricordo la mano quasi femminile, piccola e con le dita affusolate: mano da signore, non abituata ai lavori fisici. E gli occhi, quelli sì, tutt’altro che anonimi, di un colore strano, verdi ma trasparenti: una finestra sul tormento, gli occhi di Ricciardi.
Mi chiesi cosa guardasse, seguii lo sguardo e vidi. Da quel momento cominciò a raccontarmi, e non ha più smesso.
Ogni scrittore vorrebbe avere una serie, sapete. Puoi seguire i personaggi, conoscerli meglio e raccontare sempre più a fondo la loro vita e il loro mondo. E più banalmente, avere una serie significa avere un successo tale da spingere l’editore a pubblicarti ancora.
Io non ho mai scritto di Ricciardi nella prospettiva della storia successiva: non mi ha mai detto che ci saremmo rivisti, e che mi avrebbe detto il seguito di quello che gli accadeva. Ogni volta ho creduto che potesse essere l’ultima, e anche se ci legavamo sempre di più nessuno dei due ha mai avuto la certezza che ci saremmo rivisti.
Negli anni io ho lasciato il lavoro che avevo e sono diventato uno scrittore a tempo pieno, mi sono sposato, i figli si sono laureati e hanno trovato lavoro senza dover partire e andare via e posso godermi la loro presenza ogni giorno: sono stato molto fortunato. Lui si è innamorato, si è consolidato nel suo lavoro, ha stretto amicizie, si è sposato e ha avuto una figlia, è rimasto vedovo soffrendo moltissimo e capendo, insieme a me, che una perdita non è un’assenza ma una forma differente di presenza.
Storia dopo storia siamo rimasti insieme, e ogni tanto l’ho incontrato nei posti meno prevedibili, pronto a raccontarmi un altro pezzo di storia. Come si fa tra amici, che non si vedono da un po’ e poi si aggiornano su quello che è successo, ed è come se non si fossero mai allontanati di un millimetro.
Tra noi però c’è sempre stato un accordo: avrei smesso di raccontare di lui nell’imminenza della guerra.
Per la verità, venendo meno al patto, avevo provato a fermarmi prima, quando per lui era il 1934 e per me il 2021, con la morte della moglie e la nascita della sua bambina; credevo che fosse uno snodo insuperabile, e che l’immediato futuro gli avrebbe riservato solo dolore. Se vuoi bene a qualcuno non ti va di osservarne la sofferenza, e per poterne raccontare dovevo vedere.
Poi però ho avuto un grave problema di salute, e me lo sono trovato in piedi vicino al letto in ospedale. Non diceva niente, mi guardava soltanto: ma i suoi occhi pieni di malinconia mi chiedevano conto e ragione del perché non poteva avere ancora vita, adesso che la mia, quella di chi poteva raccontarlo, era così a rischio. Quegli occhi mi dicevano che non c’era solo dolore, negli anni che passavano dalla morte della sua Enrica: che c’era Marta, la bambina di cui ancora tanto c’era da dire, e i suoi amici, Maione e Bambinella e Modo, e le donne speciali che aveva attorno, Nelide e Bianca, e Livia dall’altra parte del mondo piena di rimpianti e di tango.
Mi estorse la promessa che se fossi uscito di lì con i miei piedi avrei ripreso a raccontare di lui. E così è stato.
Siamo cambiati tanto Ricciardi e io, rimanendo uguali a come eravamo. Lui e io siamo la giovinezza passata, siamo l’età perduta. Siamo i sorrisi attraverso le lacrime, siamo il senso di quelli che se ne sono andati e il calore di chi è rimasto.
Con questo ritorno ci salutiamo, la prima settimana del luglio del 1940 per lui, questo malinconico novembre per me. Ci sarà la guerra. E una città piena di bombardamenti e di morti, ventiseimila: lui non lo sa, e io non ho il coraggio di dirglielo.
Ci rivedremo? Racconterò ancora di lui? E chi lo sa, non l’ho mai saputo e non lo so adesso. Certamente non fino agli anni Cinquanta, quando il rumore delle bombe sarà solo un incubo nella notte, di quelli che ti lasciano sudato nel letto a occhi spalancati nel buio. Quando il fumo si sarà dissolto e ci sarà di nuovo un futuro da intravedere. Non prima di allora, quando Marta sarà un’adolescente e magari avrà la forza di portare il papà al di là del rimpianto, con tutte le lesioni e le ferite che avrà. Non prima di allora.
Per ora posso solo ringraziare Ricciardi, per la compagnia che ci siamo fatti ogni singolo giorno di questi vent’anni. E tutti quelli che, in questo tempo, hanno avuto voglia di ascoltare la sua storia.
Il libro e gli incontri
«Volver. Ritorno per il Commissario Ricciardi » di Maurizio de Giovanni sarà in libreria da martedì 26 novembre pubblicato da Einaudi Stile libero (pagine 253, euro 18,50). Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) presenterà il libro il 26 novembre alle ore 20.30 a Napoli, al Teatro Acacia, con Lino Guanciale; il 27 novembre a Roma, alle 18 alla Libreria Nuova Europa I Granai, con François Morlupi e Marco Iannelli; il 3 dicembre a Milano, alle 18.30 alla Libreria Rizzoli Galleria, con Luca Crovi per Noir in Festival.
23 novembre 2024 (modifica il 23 novembre 2024 | 15:07)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
23 novembre 2024 (modifica il 23 novembre 2024 | 15:07)
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