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La società di Frankenstein: l’intervista a Ian McEwan

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Nel suo bellissimo Quello che possiamo sapere (Einaudi) Ian McEwan, uno dei più grandi scrittori contemporanei, accompagna il lettore a spasso nel tempo. Lo porta lontano, nel 2119, ma per fargli vedere le conseguenze di scelte o indifferenza sul destino della nostra umanità, esposta alla possibilità concreta del «Grande Disastro», che la cancella.

Ian, la nostra generazione è cresciuta con una grande fiducia nella scienza e nella tecnologia: il vaccino antipolio, il trapianto del cuore, la conquista della Luna. Ora dobbiamo averne paura?

«Le grandi conquiste della scienza e della tecnologia stanno diventando sempre più complesse e, soprattutto, il loro destino si è intrecciato con le forme estreme del capitalismo. La nostra preoccupazione, oggi, è che comincino a fuoriuscire dal controllo democratico. Se ci pensi bene, è la storia di Frankenstein. Con quel romanzo per la prima volta, in letteratura, emerge l’idea che sia possibile fabbricare un mostro. Salvo poi rendersi conto che quella creatura può sfuggire di mano, con esiti incalcolabili. Mary Shelley lo aveva previsto nel XIX secolo e forse anche noi avremmo potuto immaginarlo, osservando senza distrazioni o sottovalutazioni l’evoluzione delle tecnologie e il loro crescente rapporto con il profitto».

Siamo entrati nel tempo in cui può finire la verità? La realtà può essere giustiziata dalla finzione o dalla manipolazione? Mi sembra uno dei tanti temi affascinanti del tuo romanzo.
«Abbiamo a che fare esattamente con questa sfida inquietante. L’eclisse della verità è una tendenza che è nelle cose, che si sta realizzando. Il problema della democrazia è come si fa a contrastarla, perché può essere letale per la libertà. Ci sono somme di denaro colossali che oggi vengono investite nel tentativo di illudere le persone di godere di un potere illimitato. Noi da principio avevamo sperato che l’esito di questa innovazione comunicativa sarebbe stato il citizen journalism. Ma la verità è molto diversa. Fino al 2010, nel complesso, gli effetti dell’esistenza di Internet erano positivi. Poi qualcuno ha sviluppato il software che consente con rapidità, meccanicamente, di ritwittare i messaggi altrui. E così i pensieri e la loro libertà si sono ridotti. L’effetto è la possibilità di organizzare — persino con le macchine, senza persone — campagne di disinformazione di massa o shit storm che si diffondono con una crescita esponenziale della loro pervasività».

Questo alimenta l’odio su cui prosperano i vari e spesso opposti populismi…

«I populisti non amano certo che si possano verificare le loro affermazioni. È contro i loro interessi. Non per caso ora ci ritroviamo con un presidente degli Stati Uniti, Trump, che cerca di distruggere la Bbc. Ciò che possiamo sperare, con qualche margine di certezza, è che il nuovo populismo si dimostri del tutto incapace di mantenere le fallaci promesse fatte e si dimostri incapace di gestire i singoli paesi. Vediamo già i segni di questi fallimenti nei Paesi Bassi e in Argentina. E, ovviamente, possiamo aggiungere gli Stati Uniti».

Trump è la creatura creata dal Dottor Frankenstein? Che però in questo caso sarebbero gli elettori…
«In un certo senso siamo tutti inventori di Trump e di figure analoghe. La affermazione di personaggi simili è, deve essere, l’incubo collettivo delle socialdemocrazie. Ciò di cui bisogna preoccuparsi sono infatti i sogni, le rabbie e le aspirazioni dei seguaci di uomini politici come Trump. Però mi sembra che già mostri segni di cedimento, questo tipo di populismo. Il prezzo delle uova negli Usa non è sceso, come promesso. È cresciuto, da quando lui è alla Casa Bianca».

Tutta la tua letteratura è fondata sul tema del tempo. Mai come in questo momento si ha la sensazione che la tridimensionalità della vita sia stata annientata: il passato è inutile, il futuro fa paura, ci viene consentito di vivere solo in un presente affannoso. La distopia della tua trama è un modo affascinante di riproporre questo tema, così centrale nel tuo modo di raccontare.
«Viviamo in un presente che è intrappolato tra due insiemi di fantasmi: i fantasmi del passato, dei quali qualcosa sappiamo e i fantasmi del futuro, ciò che non è ancora nato, dei quali non sappiamo nulla. Noi, intellettualmente, siamo consapevoli del fatto che dobbiamo morire. Ma viviamo come se questo non fosse vero. Il nostro presente è contraddistinto dal fatto che rimuoviamo l’idea che saremo noi, proprio noi, i fantasmi del futuro delle nuove generazioni. Chi vivrà nel futuro ci vedrà e vivrà come spettri che potranno essere o meno oggetto di interesse o indifferenza».

Non per caso il tuo romanzo si intitola «Quello che possiamo sapere».

«La struttura di questo libro, fin dal titolo, è legata al passato, a quello che possiamo imparare sul passato, a quello che possiamo scoprire di chi ha vissuto prima di noi. Ma è anche legata al futuro, quello che il futuro saprà di noi, e quello che noi possiamo sapere del futuro. Cerco di riportare tutto questo in un’unica dimensione. In altre parole, vorrei che il passato, il presente e il futuro si fondessero in un unico elemento, come dicono Eliot o le filosofie mistiche dell’Oriente. Ed è per questo che inizio con il futuro, guardando all’indietro e cercando di capire il presente; poi nella seconda parte è il presente che corregge quello che il futuro pensava di noi e allo stesso tempo cerco di spiegare quanto sia difficile conoscere persino il presente. Quello che possiamo sapere del presente infatti è molto limitato. Così come quello che possiamo conoscere di noi stessi. Quindi, alla fine dei conti, è un mistero epistemologico».

Nel romanzo si fa riferimento alla tre grandi rivoluzioni della modernità: industriale, comunicativa e ora digitale. Quest’ultima è la più intrusiva e la più condizionante dei comportamenti umani?

«Sono d’accordo: questa terza rivoluzione, la rivoluzione digitale, ha penetrato non soltanto la nostra esistenza, le vite di ciascuno, ma anche la coscienza, il pensiero, le forme delle relazioni umane. In questo senso credo sia giusto l’aggettivo antropologico. La società digitale ci sta cambiando, nel profondo. Ma la rivoluzione industriale, nonostante la miseria umana, materiale, delle masse in quel tempo, dobbiamo riconoscere che ha portato una diffusa ricchezza, ha consentito a milioni di persone di riscattarsi da una vita di semplice sopravvivenza. E non solo: in qualche maniera ha generato nella mente di molti le aspirazioni alla democrazia, ai diritti umani».

E ora?

«Ora credo che stiamo per capire se sia possibile cambiare la stessa natura umana. Già percepiamo la nostra dipendenza da queste macchine, e abbiamo il problema che sono controllate da multinazionali estremamente ricche, potenti che nessuno ha eletto, la cui nozione di quale sia un futuro sociale positivo non è necessariamente la nostra; inoltre, non c’è un vero dibattito su questo, nessuno ci ha chiesto il nostro consenso. Improvvisamente c’è ChatGpt 4, poi il 5, poi il Pro e molti altri modelli di linguaggio. Certo, nessuno ha chiesto il permesso per fare la rivoluzione industriale del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Ma questa volta, quello che mi sconvolge è la concentrazione di potere».

Ti spaventa l’Intelligenza artificiale?

«Parlo con amici che mi dicono “devi usare ChatGPT pro o 5, è molto meglio del 4.” E ci sono già persone che utilizzano l’IA per risolvere problemi personali. Persino nella nostra famiglia, mio cognato l’ha usato per aiutare un amico che si sentiva senza più speranze, e l’IA gli ha parlato come un saggio orientale dicendo: “Non è la destinazione che conta, è il viaggio. Devi guardare dentro te stesso”. Dio mio. Queste cose sono entrate nelle clausole della nostra esistenza. E non abbiamo idea di dove ci porteranno. L’unica cosa che sembra guidare questo processo è il denaro. Solo il denaro. Ma la rivoluzione più devastante è un’altra».

Quale?

«Mi riferisco al veloce crollo della popolazione terrestre. I demografi si chiedono oggi se la specie umana sopravviverà, viste le nostre scelte. In tutto il mondo non si fanno abbastanza figli. Le società dove c’è più istruzione, più cultura, più ricchezza e più tecnologia tendono a procreare sempre meno. In alcune parti del mondo si è persino al di sotto del tasso di sostituzione. Il Giappone ha un tasso dello 0,7. Calano gli Stati Uniti e il Canada. Nel Regno Unito siamo a 1,4. La storia della demografia dice che nessun Paese è mai sceso al di sotto dei due punti, nel tasso di sostituzione».

Gli umani diminuiscono e la natura respira, dici nel tuo romanzo. E immagini una popolazione mondiale che si riduce da nove a quattro miliardi di anime.
«È il paradosso del nostro tempo: forse la riduzione della popolazione salverà la natura. Vengono meno i problemi ambientali, perché siamo noi, che diamo fastidio, a venir meno. Non ci si occupa abbastanza di questa quarta, radicale, rivoluzione. Finora nessuno veramente ha trovato un modo efficace ed efficiente di incoraggiare le donne a fare più figli. Se ne mettono al mondo ancora molti in società oppressive e patriarcali. Nelle società avanzate non funziona. Prendi la Corea del Sud: con tutte le opportunità che vengono offerte alle donne, benché la società fondamentalmente sia ancora a dominanza maschile, le donne lo dicono con chiarezza: io di figli non ne voglio, ne voglio zero. Quindi può darsi che svaniremo, che il genere umano si ridurrà e, per paradosso, si eviterà così l’estinzione della biosfera».

L’Impero Romano è crollato nel terzo secolo perché sono emersi due fenomeni contemporaneamente: una pandemia e un cambiamento climatico. Ci sta succedendo la stessa cosa?
«Considero la pandemia del Covid uno spartiacque: c’è un prima e un dopo. Ci sono state tante civiltà che sono crollate per uno sfruttamento smodato delle risorse, per un cambiamento nel clima o per delle epidemie. Però erano civiltà singole, erano confinate sull’isola di Pasqua o sull’Eufrate. Ora il cambiamento climatico ci riguarda a livello globale, e penso anche io che la pandemia sia stata solo un assaggio di cosa significhi una crisi globale».

Appunto: non è un paradosso che tutti i problemi che abbiamo davanti siano globali e invece risorga il nazionalismo?
«Possiamo parlarne liberamente, senza i vincoli di ciò che qualcuno ha stabilito essere corretto? La maggior parte delle persone vive la sua vita in famiglie, in comunità, in una serie di cerchi concentrici, e quindi ha difficoltà a pensarsi come cittadino globale, o dell’Ue, o dei grandi blocchi commerciali. Per esempio, nel mio Paese, abbiamo avuto grandi ondate di immigrazione dai Paesi ammessi recentemente, come la Polonia o l’Ungheria. Tutti gli altri Paesi avevano una regola molto saggia, lasciare che le economie di quei Paesi crescessero. E il nostro governo all’epoca, un governo Labour, con le migliori intenzioni, disse: “Non c’è problema, ne verranno diecimila”. Ne sono arrivati un milione e mezzo. Lavoravano per paghe più basse, e molte persone si sono improvvisamente ritrovate senza lavoro. E c’erano anche questioni legate agli alloggi, alle sale d’attesa dei medici strapiene, a scuole con classi gigantesche piene di bambini che non conoscevano l’inglese. E c’era la tentazione, quando c’erano delle proteste per tutto questo, di sminuirle considerandole razziste».

È la sofferenza degli ultimi, che spesso la sinistra non ascolta.

«La crescita del populismo in tutta Europa ha purtroppo le sue radici nella sordità dei Socialdemocratici e della sinistra. Tutti i migranti partono dal basso. Arrivano poveri, quindi si uniscono ai poveri che sono già lì. E sono i poveri che alzano la testa e dicono: “Non ci state ascoltando”. E anche solo dire quello che sto sostenendo, dieci anni fa mi avrebbe messo nei guai. Però mi sembra che ora si stia iniziando ad imparare questa lezione. Nessuno ha chiesto alla popolazione locale “volete che molti polacchi e ungheresi vengano a vivere nella vostra strada?”. E prima ancora, non abbiamo chiesto se volevamo musulmani o hindu, o persone che vengono da piccoli villaggi con attitudini profondamente diverse. A nessuno è stato chiesto. E penso che stiamo vedendo una rivolta contro la globalizzazione, perché le persone vogliono comunità, vogliono vivere in una dimensione piccola, sicura, vogliono decidere il proprio destino».

Cos’è la guerra nel tempo dell’IA? Tu immagini che la terra sia sconvolta dal “Grande disastro”. Catastrofi ecologiche, crisi economiche, conflitti nucleari per errore.
«Ogni Paese che può permetterselo sta spendendo dei soldi per aumentare le capacità militari, compresa quella nucleare. E in più ora c’è l’IA. Quindi la possibilità che si commettano degli errori è altissima. Qualcosa sta crollando, partendo dall’America. Sta crollando qualcosa nell’ordine mondiale. Gli Stati Uniti sono sull’orlo di diventare uno stato canaglia, come la Russia. Le azioni del suo esercito fuori dal Venezuela sono completamente sconvolgenti. Certo, odiamo il regime di Maduro, ma ormai viviamo in un mondo in cui la possibilità di entrare in un altro Paese, come la Russia ha fatto in Ucraina, potrebbe diventare la norma, e a quel punto le cose saranno veramente fuori controllo».

Il tuo romanzo agisce su due piani. La prima parte è la ricerca della verità nel frammento, la seconda la ricostruzione di un quadro generale attraverso il racconto. Mi sembra una metafora del nostro tempo, pieno di tessere del mosaico ma scarso di disegni generali.
«Sono completamente d’accordo con te. Ma la responsabilità di unirci in una rete di verità comuni è di un esercito intero di persone, tra cui, certo, i romanzieri. Credo che il giornalismo responsabile possa aiutare, così come può farlo il cinema, o i reportage, per i quali Internet è un’ottima fonte. Penso anche che le serie televisive lunghe possano avere un po’ lo stesso impatto che ha avuto il romanzo vittoriano nell’aiutarci ad avere un quadro d’insieme su dove siamo e cosa stiamo facendo e come ci siamo arrivati. L’altro elemento che credo possa unire tutti questi frammenti è il senso della Storia. E mi addolora che l’insegnamento della Storia sia diventato sempre meno importante nelle nostre scuole. E poi ormai racconta una storia parziale, a causa di un senso di colpa coloniale, che è importante, ma abbiamo sempre bisogno di un quadro d’insieme per capire come siamo arrivati qui. Credo che abbiamo bisogno di un racconto più potente del solo senso di colpa. Quindi sì, ci vuole un esercito di persone, o come si dice un villaggio di produttori che lavorino, non necessariamente insieme, ma collettivamente contro questa frammentazione e contro il solipsismo e l’individualità consumista che ci fa sembrare tutti così triviali».

Non si sente particolarmente a sinistra la mancanza di una moderna idea di società?

«La destra cavalca la rabbia contro la globalizzazione, ma oltre questo non ha un progetto, un disegno di società. In questo tempo per provare a proporre una visione d’insieme di sinistra bisogna occuparsi di cose molto diverse, spesso contraddittorie. Ci vorrebbe qualcuno che sapesse sì criticare le soluzioni del populismo, ma, insieme, fosse in grado di proporre un progetto che lasci spazio alla creatività individuale, lasci fiorire l’impresa senza devastare completamente quello che resta dell’ambiente. Tutte cose possibili».

Chi lo può fare?

«Tu sai che le mie simpatie non vanno alla sinistra estrema, ma a un centro sinistra. Faccio parte di quell’ispirazione. Ma oggi le voci, per me le più utili, le sento nel movimento ambientalista: condividere le risorse e non spingersi fino a consumarle e esaurirle completamente, cercare di lavorare a livello locale, essere creativi senza farsi completamente instupidire dai governi. Queste idee sono lì, sotto il pelo dell’acqua, lavorano, ma non sono riuscite ancora ad aprirsi un varco e a entrare nel mainstream di sinistra. E poi c’è il vizio atavico delle divisioni a sinistra. Avremmo bisogno di un visionario che sorga come un astro e che punti a una terza via che non può fatalmente più essere quella di Tony Blair, il quale l’ha predicata, ma si è poi dimostrato troppo vicino al business».

La solitudine, nel tuo libro è molto presente.

«Dobbiamo fare una distinzione tra lo stare soli e la solitudine. La capacità di stare da soli è uno dei grandi lussi della civiltà. Stare soli per scelta individuale, seguire i propri pensieri in libertà è una delle più grandi conquiste delle società umane. La solitudine, invece, è il primo stadio di una crisi mentale, e di una sofferenza. E mi interessa profondamente perché credo che inizierò a scrivere un romanzo sulla fine dell’infanzia, sui bambini che perdono la capacità di giocare. Dovrebbero poterlo fare senza supervisione, con gli adulti a distanza, che li guardano ma non sono a portata di mano, in modo che i bambini possano discutere, cercare soluzioni, provare il brivido dell’invenzione e dello stare all’aperto. Non voglio idealizzare le infanzie del passato, ma per la nostra generazione giocare all’aperto era un evento quotidiano. E ora mi sembra un po’ il paradiso perduto. Quindi sì, credo che la solitudine sia uno dei grandi problemi del mondo moderno. La solitudine degli anziani, perché ce ne sono tantissimi, e non ci sono abbastanza giovani che possano prendersene cura. E la solitudine indotta da Internet».

«Quando i social cominciavano a diventare valuta corrente nelle vite private, quando ondate di dicerie fantasiose, maligne o stupide iniziavano a modificare la natura non solo della politica ma anche dell’intelligenza umana» scrivi nel tuo romanzo. Internet e democrazia sono compatibili?

«Non vedo perché la rete non dovrebbe essere una facilitatrice di democrazia. C’è un’idea che gira, e mi sembra interessante. Nel 2015 è stato scoperto il software per fare un “retweet” e quindi si possono replicare le brutte idee così come quelle buone. Ora si è suggerito che questo software sia reso illegale: se vuoi fare un retweet devi copiare, incollare e inviarlo ad una persona alla volta. Questo significa limitare la libertà di parola? Io non credo. Come non credo che sia sbagliato contrastare l’anonimato. Se odi e insulti devi metterci nome e cognome. La seconda idea, e questa è molto più controversa, è che i governi debbano trovare dei modi per nazionalizzare Internet, toglierlo dal profitto e metterlo nelle mani di enti autonomi, extra-governativi, che abbiano una forte vocazione alla verità collettiva. Oggi il sistema è guidato dal clickbait, che è l’atto di pubblicare qualcosa solo perché pensi che ci sia interesse, a prescindere dal fatto che sia vero o no. L’ho menzionato di passaggio nel romanzo: Internet deve essere uno strumento fuori dalla portata delle persone che cercano di farci soldi, e deve lavorare per tutti noi. Credo che il sogno degli anni Novanta, quello per cui Internet sarebbe stato solo una benedizione gigantesca, sia del tutto smarrito. Ora è una maledizione. Non soltanto perché ruba l’infanzia, ma perché ci trascina in un gorgo di odio e falsità. Quindi, ora, dobbiamo domare la belva».

23 novembre 2025 (modifica il 23 novembre 2025 | 07:33)

23 novembre 2025 (modifica il 23 novembre 2025 | 07:33)

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