Clic! E Mussolini s’infuriava: in un film la storia del fotografo del Duce

di Gian Antonio Stella Il regista Tony Saccucci porta in concorso al festival di Torino «Controluce», dedicato a Adolfo Porry-Pastorel, primo dei paparazzi

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«Sempre il solito fotografo!», sbuffò il Duce. «Sempre il solito presidente del consiglio!», rispose l’altro, ridendo. Era l’autunno del 1934, Anno XII dell’era fascista e Adolfo Porry-Pastorel era forse l’unico che potesse permettersi di rispondere così a Benito Mussolini, nel pieno del potere assoluto, senza essere spedito dritto dritto al confino…

Si conoscevano da quasi vent’anni. Cioè dall’11 aprile 1915 quando il futuro padrone d’Italia era un interventista trentaduenne ed era stato arrestato a Roma, nei dintorni di piazza Barberini, dopo un acceso comizio a favore dell’entrata in guerra dell’Italia alla quale fino a pochi mesi prima era non meno accesamente ostile. Adolfo, orfano di un ufficiale italiano dal cognome italo- inglese, aveva allora 26 anni ma già da sette, grazie a un’idea pionieristica e alla spinta di Ottorino Raimondi, vicedirettore del Messaggero, aveva fondato la V.e.d.o. (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque) e quel giorno era lì, nel posto giusto al momento giusto. Pronto a fare la foto con Benito bloccato dai poliziotti che l’avrebbe reso famoso.

Ed è sul rapporto tra loro due, Benito e Adolfo (da non confondere con Adolf, Hitler) che è centrato il film Controluce, di Tony Saccucci (già autore de Il pugile del duce su Leone Jacovacci e documentari sulla marcia su Roma o su Lotta continua) in concorso mercoledì 27 novembre al 42° Torino Film Festival. Girato in bianco e nero con la trama cinematografica che si incrocia e si confonde con gli strepitosi cinegiornali dell’Istituto Luce, prodotto da Luce Cinecittà, scritto dallo stesso regista con Flaminia Padua e Vania Colasanti, la pellicola è uno squarcio prezioso su un’epoca senza pretendere, ovvio, d’esser esaustivo.

Troppo densa per essere riassunta, la vita di un uomo che giovanissimo andò in Germania per impadronirsi dell’uso delle tecnologie allora più avanzate, che puntò l’obiettivo sui ragazzini del ’99 nelle trincee della Grande guerra, che s’inventò il mestiere di fotoreporter aprendo la strada a generazioni di colleghi giù giù fino ai paparazzi felliniani, che sui biglietti da visita vergava «Adolfo Porry-Pastorel, FOT» (dove, come ricorda Michele Smargiassi, FOT non era un’abbreviazione ma l’acronimo di «Fotografo Ovunque Tutto»), che donava alle dame specchietti da trucco col suo numero di telefono «da chiamare alla vista di qualunque cosa sia interessante», che girava per i salotti con la sua aria da dandy («papillon, paglietta, abiti eleganti, capelli pettinati all’indietro e un naso aquilino proteso su un sorriso generosissimo», scrive Enrico Menduni in L’altro sguardo, edito nel 2021 da ElectaPhoto) ma rovesciava gli schemi immortalando alle cerimonie papali la popolana che affittava sedie pieghevoli ai pellegrini. Per non dire della seconda vita di collaboratore della resistenza antifascista («Sfornò documenti falsi, passaporti per i partigiani, nuove identità per gli ebrei. Ritoccò il volto degli antifascisti. Aggiunse baffi, rese stempiate le fronti, infoltì i capelli…», scrive Colasanti in Scatto matto. La stravagante vita di Adolfo Porry-Pastorel, Marsilio, 2013) che gli guadagnò una medaglia al valore. O ancora della sua terza vita, dopo il ritiro dal lavoro schiantato dalla perdita del figlio Alberto disperso in Russia, come sindaco di Castel San Pietro Romano, un paese sui colli dove convinse Vittorio De Sica a girare Pane, amore e fantasia.

Un uomo curioso, ironico, libero. Alle prese con un regime che odiava la curiosità, l’ironia, la libertà. E diffondeva ai giornali ordini tipo questi: «Non si deve pubblicare che il Duce ha ballato». «Non pubblicare fotografie in cui il Duce è riprodotto insieme a frati». «Attenersi rigorosamente all’ordine di riprodurre il Duce soltanto insieme a grandi masse e mai da solo»… Che poteva fare, in quel contesto, Adolfo Porry-Pastorel? Cogliere ogni occasione per dare alle cose un taglio il più possibile diverso. Dicono tutto certe foto che a Mussolini, impegnato per anni a edificare di sé una immagine trionfante, diedero davvero fastidio. Lui tra i minatori col cappello floscio che lo faceva parere moscio… Lui di spalle con la crapa pelata… Ma soprattutto la panoramica scattata il 19 agosto 1936 quando, racconta il cinegiornale Luce, «il Duce è tornato a Pontinia, ha trebbiato il grano da lui seminato rimanendo per circa un’ora sulla trebbiatrice tra gli operai» per tuonare: «La redenzione dell’agro è un fatto compiuto». E che ti fa il «temerario spilungone», come lo chiamava Giovanni Giolitti? Si arrampica sul tetto di una casa e inquadra tutta la scena col Duce a petto nudo sulla trebbiatrice con gli occhiali da motociclista circondato da pochi figuranti vestiti da contadini e intorno sei cineprese, quattro auto attrezzate, una dozzina di fotografi e una moltitudine di gerarchi, accompagnatori, poliziotti… Una foto fantastica, mai pubblicata dai quotidiani, manco il «Giornale d’Italia». Che titola a tutta pagina: Il Duce trebbia il grano a Pontinia, ma preferisce tagliare la foto evitando accuratamente che si veda la messinscena. Una foto sbagliata? No, una sfida.

C’è da scommetterci, proprio quello cercava Porry-Pastorel: la strambata. Lo spiega il decalogo enunciato da Michele Eburnea, l’attore (quasi un sosia) chiamato a vestire (benissimo) i panni del fotografo: «Primo, per ottenere la foto perfetta del Duce c’è bisogno di una foto che faccia infuriare il Duce». Secondo, «mostrategli la foto in modo tale che capisca che, se si infuria, è perché la foto rimane impressa». Terzo, «la foto perfetta del Duce è una foto in controtempo». Per capirci, «fatelo mettere in posa e scattate un attimo dopo che si è tolto dalla posa». Era, in qualche modo, un gioco nel quale ciascuno faceva la sua parte. La verità, spiega la voce narrante dell’assistente che segue Adolfo passo passo, «è che quei due cercavano la stessa cosa: l’immagine eterna».

Certo è che la stessa Velia Matteotti, cioè la moglie del massimo oppositore di Benito Mussolini, doveva aver chiaro che lui, Pastorel, non apparteneva ai laudatores del Duce. Anzi. E fu a lui che, disperata, chiese aiuto perché aprisse un’inchiesta parallela sul sequestro di Giacomo. Un gesto di fiducia che si collega a un episodio inquietante che Adolfo avrebbe raccontato all’assistente solo nel 1944: la sera stessa del rapimento dell’esponente socialista, tre uomini minacciosi avevano fatto irruzione nel suo studio imponendogli di fare due foto a un fazzoletto sporco di sangue. Un macabro «trofeo»… E il giorno dopo erano tornati ancora più minacciosi per portarsi via le lastre che nella concitazione avevano dimenticato lì.

Chi erano quegli uomini? E cosa c’era, in quel fazzoletto? Cento anni dopo, il mistero resta ancora fitto fitto

22 novembre 2024 (modifica il 22 novembre 2024 | 21:50)

22 novembre 2024 (modifica il 22 novembre 2024 | 21:50)