Camere con vista sulla storia: guerre e paci dell’American Colony di Gerusalemme

di ALDO CAZZULLO Francesco Battistini racconta per Neri Pozza un hotel leggendario che ha ospitato diplomatici, spie e giornalisti. Il volume in libreria del 19 novembre

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Ogni inviato — a maggior ragione Francesco Battistini, uno dei migliori inviati di prima linea del giornalismo europeo — lo sa bene: non è stando in una stanza d’albergo che si raccontano le guerre. Ma ci sono casi in cui la guerra entra in albergo. Ed è quello il posto in cui stare: le camere, la reception, la caffetteria diventano campi di battaglia, trincee di resistenza, occasioni di negoziato. L’hotel diventa il testimone, a volte il protagonista della storia.

Di alberghi leggendari è piena la letteratura. Nella guerra civile spagnola c’era il Florida di Hemingway; a Mosca s’andava al Metropol; durante l’assedio di Sarajevo si stava all’Holiday Inn. A Gerusalemme c’è sempre stato l’American Colony. Dove per più d’un secolo si sono consumati i drammi e si sono nutrite le speranze del più lungo dei conflitti moderni.

L’American Colony non è solo un albergo storico e di fascino, sulla linea di frattura dello scontro fra arabi e israeliani. Nato quasi 150 anni fa nella vecchia casa d’un sultano, culla a fine Ottocento di una piccola colonia di protestanti americani, lo fondò la famiglia Spafford, venuta da Chicago, e all’inizio non fu un hotel: era destinato a diventare il cuore d’una società utopica cristiana con la mensa dei poveri, l’ospedale, l’orfanotrofio. Il suo collettivismo aveva in sé già i germi dei primi kibbutz.

Il Colony si trova nella parte araba, a pochi metri dalla Green Line che nel 1967 divideva la città, a due passi dall’Orient House che ospitava l’Olp di Arafat. Sul limite fra l’Est e l’Ovest, ha sempre cercato d’essere un luogo di neutralità, di dialogo, d’incontro fra cristiani, ebrei, musulmani.

Jerusalem Suite, che Neri Pozzi manda in libreria martedì 19 novembre, è la storia di questo albergo. Raccontata da Francesco Battistini con la maestria ben nota ai lettori del «Corriere», attraverso i personaggi, le stanze, gli eventi che l’hanno abitato. Si parte da un naufragio disastroso in mezzo all’Atlantico e dalla morte di quattro bambine, le figlie degli Spafford, fino all’acquisto della casa ottomana nel quartiere di Sheikh Jarrah, che ancora oggi è il terreno di scontro fra coloni israeliani e antiche famiglie palestinesi.

Durante la Prima guerra mondiale fu un lenzuolo del Colony, usato come bandiera bianca, a sancire la fine dell’impero ottomano a Gerusalemme e l’inizio del mandato britannico. Al Colony veniva Lawrence d’Arabia a rifugiarsi e Churchill a ridisegnare il Medio Oriente, Selma Lagerlöf a scrivere il suo romanzo da Nobel e Mark Twain a riposare. In questi giardini giocava un piccolo Rudolph Hess, figlio di un diplomatico tedesco e futura anima nera della Shoah.

Nel 1948, con la nascita dello Stato d’Israele, da questi tetti si sparavano la Legione araba e la Banda Stern. E negli anni ’60 qui arrivarono i giornalisti di tutto il mondo — compreso Giorgio Bocca — per seguire il processo Eichmann e la prima visita in Terrasanta di un Papa, Paolo VI.

Durante le guerre dei Sei Giorni e del Kippur, in questa reception bivaccavano gli inviati di tutto il mondo e battevano le telescriventi della Reuters. Nella camera 16 si negoziò segretamente fra Rabin e Arafat, prima degli accordi di Oslo. Qui alloggiava Tony Blair quando era inviato per la Cisgiordania e Gaza, e qui passava John Kerry dopo gli incontri di fuoco con Netanyahu.

Quello di Battistini è un libro di storia: diplomatici, giornalisti, spie, ministri, vip, un po’ tutti ci sono passati. Da David Grossman a le Carré, da Hailé Selassié a Bob Dylan, da Graham Greene e Joan Baez, da Edward Said a Peter Ustinov (che vi mise due simboliche palme della pace, più volte incendiate e ripiantate).

Il Colony è ancora oggi una piccola Palestina nella Gerusalemme occupata, dove i leader palestinesi non possono mettere piede, e insieme un pezzo d’Israele che nessun politico israeliano s’è mai sognato di frequentare. Una terra di nessuno e di tutti. Il luogo dove stare per sapere le cose. Straordinaria la storia dell’ebreo Mordechai Vanunu, che negli anni ’80 fuggì rivelando i segreti della bomba atomica israeliana: fu arrestato in maniera rocambolesca a Roma, imprigionato e dopo la pena obbligato a non uscire mai da Gerusalemme Est. Ancora oggi lo s’incontra qui a pranzare, tenuto al silenzio. Durante le intifade delle pietre e dei kamikaze, il Colony era una fortezza sicura: un rigido statuto fissa le quote «etniche» dei camerieri che vi possono lavorare, e per questo nessuno verrebbe mai ad attaccarlo.

La storia del Colony, e delle infinite guerre, rivive nei giornalisti pedinati, espulsi, anche uccisi. Nei politici che vi hanno alloggiato. Nei personaggi eccentrici che l’hanno abitato. Nelle vicende dei suoi proprietari, tirati da una parte e dall’altra, spesso attaccati e minacciati. Vicende umane individuali, solo apparentemente minori: il vecchio libraio palestinese Munther che sa tutto dei profughi dal 1948 in poi, ed è costretto dagli israeliani ad andarsene; la gioielliera pacifista Claire, venuta dall’Irlanda, che subisce misteriosi furti; il barman Ibrahim, amico dei miliziani di tutte le intifade, che raccoglie le confidenze degli ambasciatori; l’antiquario Munir, che diventa una miniera di notizie per i giornalisti.

L’American Colony doveva essere un Hotel de la Paix e invece, oggi, è lo specchio fedele del fallimento. Un monumento al processo di pace che poteva essere, e non è mai stato. La destra israeliana che lo odia, i palestinesi che ne diffidano. Il libro alterna il passo narrativo al reportage d’un conflitto che è sempre stato per la terra, per la memoria, per la conquista di luoghi simbolici. Il fronte di separazione fra due modi di vivere, di morire, di pregare, di combattere. Un laboratorio della convivenza impossibile. Prima che riesplodesse Gaza, da anni, una catena internazionale aveva ormai trasformato il Colony in un hotel per turismo di lusso (e infatti i giornali non lo «passavano» più agli inviati). Ma dopo il 7 ottobre la storia è tornata e l’ha svuotato di nuovo. Ha riportato i diplomatici, le ong, i giornalisti. L’ennesima guerra ha costretto l’al
bergo a riprendersi il suo destino.

17 novembre 2024 (modifica il 17 novembre 2024 | 21:56)

17 novembre 2024 (modifica il 17 novembre 2024 | 21:56)