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Una perfetta identità tra autore e io narrante, un invito a pranzo a casa dei genitori insieme alla sorella e una sconvolgente rivelazione sulla loro storia familiare: la nonna paterna, mai conosciuta e creduta morta da lunghissimo tempo, era in realtà appena scomparsa. Sorprende il lettore, già nell’incipit folgorante, La geografia del danno di Andrea De Carlo (La nave di Teseo, dal 5 novembre in libreria), questa volta non un romanzo in senso stretto ma una forma ibrida, nata dall’urgenza di ricostruire un’oscura saga di famiglia tardivamente scoperta e di individuarne l’eco attraverso le generazioni, in una sorta di appassionante giallo storico, con tanto di crimine e colpi di scena, nutrito di un’introspezione sincera ma sorvegliatissima, tanto più insolita in un autore alieno all’autobiografia e a sovraesposizioni mediatiche, che qui invece segue il solco tracciato dal premio Nobel Annie Ernaux e dai suoi epigoni e fa dell’autobiografia familiare materia narrativa.
La nonna in questione, l’attrice cilena Doralice Migliar, era giunta con la compagnia teatrale di famiglia a Genova, dove aveva sposato Carlo De Carlo e nel 1919 messo al mondo Giancarlo, rispettivamente nonno e padre dello scrittore, e per decenni se ne erano conosciuti solo gli «scarni racconti» della prozia Anita, che come una madre aveva cresciuto Giancarlo a Livorno e poi a Tunisi: qualche informazione sull’aspetto fisico, sull’eccentricità della famiglia d’origine e sulla pessima abitudine di lasciare il figlioletto in casa da solo per aggredire la noia e incontrare i propri connazionali sulle banchine del porto. La donna si era allontanata dalla famiglia quando il figlio aveva due anni e cercato invano di riprendere i contatti con lui al raggiungimento della maggiore età, ma Giancarlo De Carlo si era negato e per tutta la vita, anche con la complicità della moglie, si era professato orfano di madre. La confessione paterna scatena nello scrittore la curiosità di approfondire quella vicenda, di saperne di più sulla nonna, di risalire alle origini della storia di famiglia, taciuta nel corso degli anni da due genitori poco inclini a frequentare parenti e a rivangare memorie, e di scovarne i riflessi nella propria storia personale in una perenne oscillazione fra il «dentro» e il «fuori» che attraversa le pagine.
De Carlo tratteggia così una «geografia» familiare che risale alla fine dell’Ottocento e si muove attraverso tre continenti (Europa, Sud America e Nord Africa) e numerosi Paesi sulle tracce, talvolta imperscrutabili, delle migrazioni dei De Carlo e dei Migliar, segnata da un danno d’origine che rompe una coppia, priva un bambino della madre e mette in moto meccanismi di protezione familiare destinati a imprimere segni perfino sui nipoti. Quelle vicissitudini, tutte vere eppure dai tratti romanzeschi come solo la realtà sa essere, si popolano strada facendo di una folla di personaggi che prendono vita anche grazie ai ritrovati contatti con una parte della famiglia fino ad allora mai frequentata, che offre dei Migliar un affresco molto diverso da quello tratteggiato dai De Carlo e in particolare da Giancarlo, comprensibilmente condizionato dal presunto abbandono materno.
Attraverso memorie familiari, vecchie fotografie che saltano fuori dai cassetti e una recente biografia del prozio attore Adelqui Migliar, con pazienza certosina lo scrittore mette insieme il puzzle di due famiglie assai diverse tra loro (estroversa e vivace quella di Doralice, composta e ordinata quella dei De Carlo), ricostruisce la storia dell’antenata e tratteggia il profilo dei genitori e delle loro molte eccentricità incomprensibili per i figli, spinto dal bisogno di riempire vuoti di storia familiare e dal desiderio di comprendere i meccanismi di una «coazione a ripetere» gesti ed errori in una sorta di trasmissione epigenetica attraverso le generazioni: cresciuti entrambi senza madre, con padri assenti e famiglie in continuo spostamento, i genitori di De Carlo, lui architetto di fama internazionale, lei traduttrice, hanno finito per riprodurre inconsapevolmente quel retaggio, imposto un lessico familiare fatto non di parole ma di regole e scelte di vita severe e talvolta ai limiti dell’assurdo, schivato la condivisione in una granitica solidarietà di coppia a discapito dei figli. E mentre l’indagine sulla nonna arranca, riprende, accelera, quella interiore produce nuova consapevolezza, l’approdo all’idea di un «determinismo familiare» che, alla resa dei conti, nella vita dello scrittore si è tradotta in singoli episodi, come l’incapacità di sottrarsi a una relazione tossica con una donna emotivamente instabile, e, più in generale, in un mancato senso di appartenenza da perenne sradicato che ne ha segnato almeno fino a qui l’esistenza.
Con La geografia del danno De Carlo scrive uno dei suoi libri migliori, intreccia affondo intimistico e gusto romanzesco, ricostruzione biografica e un affresco storico accurato, frutto anche della sua formazione (è laureato in Storia contemporanea), con uno stile profondamente rinnovato, lontano dalle suggestioni dei linguaggi visivi dei suoi romanzi, attraversato dall’uso incalzante delle interrogative laddove le certezze non fugano dubbi, anzi aprono nuovi, molteplici ventagli di possibilità, tra i bivi che l’esistenza delle persone incrocia e i moti divergenti dei loro animi, sempre sul filo ambiguo della pretesa di verità e dei punti di vista, temi cari all’autore.
Chi sia stata veramente Doralice e come siano andate le cose con il marito è impossibile accertare, ma con il tempo molti tasselli vengono collocati al posto giusto attraverso un lavoro di deduzione «arbitrario e senza riscontri» e tuttavia capace di attingere a una verità scomoda, colmare vuoti attraverso l’immaginazione in un quadro via via coerente e plausibile. E che verso quella nonna così piena di vitalità, istruita e libera in modo inusuale per l’epoca, lascia affiorare un sentimento di nostalgica simpatia.
3 novembre 2024 (modifica il 3 novembre 2024 | 14:44)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
3 novembre 2024 (modifica il 3 novembre 2024 | 14:44)
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