
Il potere di «stampare moneta» (immagine ormai obsoleta), o di controllare l’accesso al denaro, non è più un privilegio esclusivo dei governi sovrani. Sempre più spesso, le regole che stabiliscono come il denaro viene creato, trasferito e detenuto non sono decise solo dagli Stati, ma dalle reti online e da protocolli tecnologici al di fuori dell’autorità di qualsiasi nazione.
Washington e Pechino ne sono consapevoli, e la loro rivalità si è ormai estesa a questo nuovo orizzonte.
Le stablecoin sono diventate uno dei nuovi fronti caldi della competizione tra Stati Uniti e Cina: un terreno dove si intrecciano sovranità monetaria, controllo dei capitali, tecnologia e lotta per l’egemonia del dollaro.
In vantaggio per il momento è l’America che «istituzionalizza» le stablecoin in dollari.
La Cina è combattuta tra paura di perdere il controllo e tentazione di usare gli stessi strumenti per espandere l’uso internazionale dello yuan o renminbi.
Tra gli sviluppi più recenti del 2025: l’entrata in vigore della legge americana GENIUS Act; la nascita di un regime di licenze per gli emittenti a Hong Kong; e un nuovo giro di vite di Pechino sulle attività cripto.
Intanto il mercato del Bitcoin sta vivendo una fase di forte correzione. Ma è bene ricordare che le stablecoin e le criptovalute sono due cose ben diverse, quasi diametralmente opposte: in comune hanno solo la dimensione digitale.
La grande svolta è arrivata con il GENIUS Act (Guiding and Establishing National Innovation for U.S. Stablecoins), la legge americana che crea un quadro organico per regolamentare le «stablecoin come strumenti di pagamento» denominate in dollari, emesse sia da banche sia da soggetti non bancari autorizzati.
La legge è ormai in vigore e ha un consenso bipartisan: Donald Trump l’ha firmata il 18 luglio 2025, dopo un passaggio con ampie maggioranze in Senato e alla Camera.
Il cuore del progetto: trasformare le stablecoin in «quasi contante digitale», riconosciuto e vigilato, in grado di circolare sulle nuove infrastrutture di pagamento globali. L’idea è che, se le stablecoin sono emesse da banche o da «emittenti qualificate», con riserve in dollari e titoli del Tesoro, la parità uno a uno diventa credibile e stabile, e questi token possono essere considerati mezzi equivalenti alla liquidità.
Alcune stime parlano di possibili emissioni fino a 1,75 trilioni di dollari in stablecoin nei prossimi anni: sarebbe un gigantesco potenziamento dell’ecosistema del dollaro, non una sua alternativa. Ecco la posta in gioco: le stablecoin in dollari combinano la tradizionale forza del dollaro con la velocità e l’anonimato della blockchain, creando una sorta di «oro digitale» facilmente trasferibile a livello globale.
Il GENIUS Act apre ora una fase di regolazione secondaria: le autorità (Fed, OCC, FDIC, SEC) devono scrivere le regole tecniche su riserve, governance, vigilanza e accesso al sistema dei pagamenti.
Dietro questa ingegneria regolatoria c’è un obiettivo geopolitico: se «tokenizzo» il dollaro in modo sicuro e regolato, allargo ulteriormente il suo raggio d’azione nei pagamenti digitali, nelle rimesse, nel commercio internazionale, perfino nelle economie che cercano di affrancarsi dalla sfera americana.
La Cina oscilla tra paura e imitazione. Il regime comunista ha costruito il suo potere sul controllo capillare dei flussi di denaro: repressione finanziaria sui risparmiatori (il termine indica il fatto che i cittadini hanno scarse alternative ai conti bancari nazionali, che rendono poco), controlli sui movimenti di capitali, possibilità di premiare o punire le élite economiche usando l’accesso al credito come leva politica.
Le stablecoin in dollari, specie se emesse da grandi banche americane, minacciano questo sistema su più fronti: offrono agli esportatori cinesi un mezzo di pagamento in dollari a basso costo, aggirando parte del sistema bancario nazionale; creano circuiti paralleli che sfuggono ai controlli sui capitali; nel lungo periodo potrebbero sostituire lo yuan in molte transazioni, erodendo la sovranità monetaria. Ricercatori cinesi legati a JD.com e altri gruppi riconoscono esplicitamente che il sostegno americano alle stablecoin bancarie rafforza ulteriormente il ruolo del dollaro nel commercio e può aumentare la domanda di Treasury Bond, riducendo il costo di finanziamento del debito pubblico per Washington.
La reazione di Pechino è stata finora ambivalente. All’interno del paese rimane il divieto pressoché totale delle criptovalute. La sperimentazione della propria stablecoin, il renminbi digitale (e-CNY), non ha avuto il successo sperato, surclassato nei pagamenti quotidiani dalle piattaforme digitali private di Alipay e WeChat Pay. Si registra una crescente apertura, almeno nel dibattito interno, verso la possibilità di stablecoin in renminbi-yuan, ma solo in versioni rigidamente controllate.
Qui entra in gioco Hong Kong. Avanza l’idea di usare la città come laboratorio per stablecoin in RMB offshore, preservando invece i controlli sui capitali nella Cina continentale. Nel 2025 questa ipotesi è diventata realtà normativa: la legge «Stablecoins Ordinance», approvata dal Consiglio Legislativo a maggio, è entrato in vigore il 1° agosto 2025 e ha creato un regime completo di licenze per gli emittenti di stablecoin. Hong Kong dunque consente a soggetti autorizzati di emettere stablecoin legate al dollaro di Hong Kong (ancorato al dollaro USA) e potenzialmente allo yuan offshore (CNH); si propone come hub regolato per testare stablecoin in yuan, rivolte ai mercati internazionali. Resta però in equilibrio precario: troppo entusiasmo per le monete digitali a Hong Kong rischia di far scattare reazioni ostili a Pechino. Non a caso, nelle ultime settimane la People’s Bank of China – la banca centrale di Pechino – ha riunito più agenzie per ribadire un giro di vite sulle valute virtuali, con particolare attenzione alle stablecoin, lamentando rischi di speculazione e falle nell’antiriciclaggio. L’annuncio ha spinto grandi gruppi come Ant e JD.com a sospendere alcuni progetti di tokenizzazione. La linea cinese, quindi, resta: repressione sul continente; sperimentazione controllata e reversibile a Hong Kong; nessuna intenzione di accettare stablecoin decentralizzate e anonime.
La sfida strategica può vedere a livello globale un dollaro più «privatizzato» contro il renminbi-yuan di Stato.
La competizione Usa–Cina sulle stablecoin si può leggere così.
Gli Stati Uniti privatizzano in parte la proiezione del dollaro, delegando a banche e altre emittenti regolate la creazione di dollari sintetici che viaggiano sulle blockchain. Il GENIUS Act offre un «ombrello» legale a questo processo. La Cina, invece, punta a un modello dove la moneta digitale (e-CNY o future stablecoin in RMB) è pienamente integrata con l’infrastruttura di sorveglianza: identità digitale, riconoscimento facciale, limiti geografici e settoriali alla spesa, date di scadenza del denaro, tutte funzioni già testate nel renminbi digitale. Hong Kong è il campo di prova dove Pechino cerca di conciliare due obiettivi contraddittori: sfruttare il nuovo ecosistema delle stablecoin per internazionalizzare lo yuan e, al tempo stesso, non allentare davvero i controlli sui capitali.
Al momento, però, il peso relativo è chiarissimo: oltre il 99 per cento delle stablecoin emesse nel mondo è in dollari. Anche nel campo delle monete tradizionali i rapporti di forza restano a favore dell’America in modo soverchiante; la quota dello yuan nei pagamenti globali resta intorno al 4 per cento.
Tokenizzare lo yuan non basta: la vera sfida per la Cina è interna, fatta di riforme strutturali per ridurre la dipendenza dalle esportazioni e accrescere la fiducia di lungo periodo nella sua crescita. Senza questo, anche la più sofisticata stablecoin in RMB resta un rivestimento tecnologico di una valuta che i mercati continuano a percepire come poco libera.
Per finire qualche chiarimento utile sui concetti utilizzati.
La differenza tra criptovalute e stablecoin? Le criptovalute «classiche» come Bitcoin non sono ancorate a un’attività sottostante. Il loro valore dipende dall’incontro tra domanda e offerta sul mercato, quindi è estremamente volatile. Nascono spesso con l’aspirazione di essere monete alternative, non controllate da alcuno Stato. Il meccanismo di consenso all’origine della loro credibilità serve a garantire l’integrità della blockchain, non la stabilità del prezzo. Le stablecoin invece sono token digitali progettati per mantenere un valore stabile, di solito 1:1 con una valuta (dollaro, euro) o con un paniere di attività sicure. L’emittente promette di detenere in riserva attività equivalenti (contante, titoli di Stato a breve, depositi bancari). Se le riserve sono solide e trasparenti, la stablecoin assomiglia a una «moneta elettronica» o a un fondo monetario tokenizzato. Nella pratica, molte stablecoin non hanno sempre mantenuto la parità, specie quando le riserve erano opache o composte da asset rischiosi; di qui l’esigenza di regole come il GENIUS Act.
Le spiegazioni più diffuse per la recente perdita di valore del Bitcoin?
Tra ottobre e inizio dicembre 2025 il prezzo del bitcoin è sceso dai massimi storici sopra 120.000 dollari a valori intorno agli 85.000–90.000, con cali giornalieri anche superiori al 5 per cento. Le interpretazioni più citate dagli analisti convergono su alcuni fattori: un clima recente di avversione al rischio tra gli investitori, con vendite simultanee su azioni tech e cripto. Incertezza sulla traiettoria dei tassi delle banche centrali, che rende meno appetibili gli asset speculativi. Leva eccessiva (cioè acquisti finanziati indebitandosi) nel sistema cripto: molti investitori operavano con debiti molto elevati (anche 100–200 volte il capitale), amplificando al ribasso qualunque correzione. Le liquidazioni forzate di posizioni a margine hanno accelerato le cadute di prezzo. In sintesi, mentre il dollaro a lungo termine può rafforzare il suo ruolo globale grazie all’istituzionalizzazione delle stablecoin, Bitcoin attraversa una fase di volatilità che conferma il suo ruolo di asset altamente speculativo, più che di moneta alternativa stabile.
2 dicembre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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