Se il 2025 si chiude con una nuova stabilità finanziaria del nostro Paese, che porta risultati concreti con una riduzione che deve diventare strutturale dello spread sui titoli di Stato, il 2026 e quelli successivi devono essere gli anni della crescita. Non abbiamo più alibi per affrontare un percorso che l’Italia da oltre trent’anni non riesce più ad intraprendere con decisione. Chiarendo su questo aspetto un punto fondamentale per evitare fraintendimenti pericolosi. Senza stabilità finanziaria è impossibile parlare di crescita. La stabilità non è l’obiettivo finale ma la condizione di base, a prescindere da qualsiasi confronto politico, per mettere a fuoco l’obiettivo della crescita, che è sì la condizione indispensabile per portare a maggiore occupazione, salari più alti e benessere sociale.
La buona notizia è che oggi è possibile parlare di crescita e l’attenzione nel pubblico dibattito si è finalmente alzata. Per andare in questa direzione, occorre però azionare tre leve fondamentali.
Le aggregazioni
La prima è quella della dimensione delle aziende. La competizione fra aziende oggi si gioca sulla grande dimensione a livello mondiale e grazie alla dimensione si creano le maggiori possibilità ed opportunità per fare grandi investimenti, sia materiali che immateriali, per attrarre e fare crescere i talenti e per permettere all’eco-sistema delle filiere e delle aziende più piccole di crescere a loro volta. Grande impresa e piccola impresa non sono categorie alternative ma piuttosto complementari, con le grandi che oggi hanno il compito di tirare la volata.
Se questo tema ha una valenza europea, è però vero che l’Italia non solo ha pochi unicorni ma soprattutto ha molte meno grandi imprese (guardando al fatturato, con la classifica Fortune 500) di Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Olanda. Aggiungere nuovi nomi alla lista che oggi vede Intesa, Unicredit. Generali, Poste Italiane, Eni ed Enel richiede sforzi in più direzioni. Quello della narrativa generale, che deve giocare a favore di nuovi grandi campioni, quello dell’obiettivo esplicito della politica industriale del paese, quello delle aggregazioni. Quest’ultimo aspetto sta progressivamente e inconsapevolmente avvenendo, per impulso dei fondi di private equity internazionali sempre più presenti in Italia così come attraverso i family office, che spesso in assenza di alternative al ricambio generazionale promuovono piattaforme di aziende più piccole per creare valore attraverso sinergie e multipli.
L’impiego del risparmio
Questo si collega alla seconda leva da attivare che è costituita dall’impiego del risparmio e delle forme di finanziamento. Da un lato, il nostro Paese ha una disponibilità di risorse finanziarie eccezionale: oltre 6 mila miliardi di attività finanziarie detenute dalle famiglie, di cui una parte consistente rappresentata da liquidità. Dall’altro lato, uno scarso utilizzo del mercato (quotazione, private equity, emissioni obbligazionarie) come modalità realmente complementare al finanziamento bancario. Qualsiasi indicatore venga utilizzato per misurare il grado di utilizzo del mercato rispetto alla potenza di fuoco del risparmio disponibile ci vede sempre dietro i principali paesi europei.
Il ricorso al mercato finanziario da parte delle imprese non è né un lusso né un esercizio costoso. È un tema di ambizione a voler superare i limiti e a rendere la propria impresa più grande. È un tema di strumenti disponibili che vanno messi a sistema. Un obiettivo per il 2026 deve essere quello di utilizzare (non solo come pretesto ma come base di partenza) la riforma del Tuf per attivare quei vantaggi fiscali strutturali — non i bonus né le una tantum — che riconoscano un premio consistente all’azienda che apre il capitale e all’investitore che a lungo termine investe. Occorre avere il coraggio di farlo. Accompagnato da strumenti che i principali intermediari finanziari devono mettere in produzione. Usando le etichette appropriate, che siano quella di un Etf Italia, di fondi azionari di Italian Growth, fondi che guardano ai campioni europei. Anche l’azione di rimpatrio dei bond quotati all’estero promossa con successo da Consob, così come il Fondo nazionale indiretto di Cdp sono soluzioni che rafforzano concretamente l’idea che il sistema finanziario è di supporto decisivo per le imprese.
Lungo periodo
La terza leva è quella del capitale sociale. Non c’è crescita economica senza crescita sociale. Ma questa, rispetto al tema della dimensione delle aziende e dell’utilizzo del mercato finanziario, non può dare risultati di breve periodo. Proprio per questo va perseguita con cura, facendo attenzione a non dare per scontata questa risorsa che tipicamente è considerata un tratto distintivo del nostro Paese, come combinazione unica di solidarietà, di terzo settore, di servizio sanitario e di istruzione.
Promuovere la crescita del capitale sociale richiede sia di usare le risorse disponibili che investire nell’educazione, a partire dalle scuole primarie e secondarie, così come nel sistema sanitario delle nostre Regioni. Richiede di dare di nuovo impulso alla strada delle partnership pubblico-privato che mobilitano una fetta di quelle risorse finanziarie disponibili che possono essere convogliate su servizi di base a vero impatto sul territorio e nel tessuto sociale. Capitale sociale significa soprattutto dare attenzione ai più giovani, aprendo il dibattito e poi le soluzioni vere, sul tema dei salari che aprono la strada all’emigrazione delle generazioni future.
I salari
Su questo, le aziende più grandi devono interrogarsi sulla scelta di offrire salari significativamente più alti alla fascia under 30. Si creeranno disparità? Non è giusto per chi è più anziano? Penso che ci sia intelligenza collettiva più che sufficiente ad accettare questo.
Leggendo queste riflessioni è probabile che correttamente si possa dire che occorre aggiungere a queste leve quella della semplificazione normativa, della riduzione dei costi di funzionamento dei servizi e dell’energia, di liberalizzazione di molti settori e di riforma del funzionamento della macchina pubblica.
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2 dicembre 2025
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