
Da 16 anni è iscritto alla Lega e da 11 anni fa il primo cittadino a Covo, mentre da 5 coordina tutti i sindaci leghisti della Bergamasca. Eppure Andrea Capelletti, agronomo di 38 anni, il suo partito fa fatica a riconoscerlo. Un malessere che dice condiviso da tanti amministratori e militanti, mentre crescono i segnali d’allarme di tenuta su un territorio che era il cuore del leghismo. L’ultimo è stato il successo del congresso del Patto per il Nord a Treviglio due settimane fa.
Un brutto segnale?
«Il nostro radicamento rimane forte. Bergamo con 44 sindaci leghisti rimane la provincia dove il partito è più forte, ne abbiamo il doppio di Brescia. Non è un caso però se i nuovi partiti autonomisti vengono qua. Il terreno è fertile perché c’è tanto malcontento. Sia chiaro io guardo positivamente alla loro nascita: stimolano, pungolano e riportano al centro temi che erano nostri».
Nessuna dichiarazione di guerra?
«Molti amici oggi sono lì e restano miei amici. La politica non deve mai diventare una guerra personale. Per questo do loro un consiglio: le battaglie devono essere programmatiche non mosse da astio con attacchi personali come quelli che fanno alla Lega e al nostro segretario. Non pagano. I programmi e la coerenza invece portano risultati. Quella coerenza che però a noi è venuta a mancare».
Mica poco, lo spieghi.
«Dal 2009 la Lega è passata attraverso alti e bassi ma quello che non era mai mancato era un ideale politico forte in cui tutti si riconoscevano. Poco importa se si chiamasse autonomia o federalismo. Oggi non c’è più. E non è solo questione di vertice. Al centralino del municipio di Covo io ho ancora la segretaria bilingue (italiano e bergamasco, ndr), ma siamo arrivati al punto che neppure i sindaci leghisti mettono più i cartelli in dialetto. Se non siamo noi i primi a credere in certe cose, non possiamo poi lamentarci dello smarrimento generale».
Il punto di svolta è stata l’apertura al Sud?
«Quella aveva un senso, ma doveva portare il modello del federalismo del Nord in quelle regioni. Invece è successo il contrario. Abbiamo passato dei periodi in cui si veniva richiamati se si tiravano fuori tematiche identitarie o di contrapposizione Nord-Sud. Tra evolvere e cancellare il passato ce ne stanno di cose. Bisogna trovare un equilibrio che adesso non c’è e questo smarrisce i militanti».
Ma c’è ancora il militante?
«Ahimé non c’è più una vera gavetta: una volta servivano anni d’iscrizione. Solo poi potevi diventare candidato e cominciando dal basso. Ora uno arriva e in sei mesi può essere candidato ovunque, senza storia, senza radicamento. Nell’ultima Pontida l’ho detto al governatore Attilio Fontana e al segretario regionale Massimiliano Romeo che avevo promesso di andarmene se la Lega fosse diventata la brutta copia di altri partiti, e se quella promessa non l’avevo ancora mantenuta era solo per il rispetto verso le persone e verso la rete di amministratori. Quest’ultima è il bene più prezioso della Lega. È la rete che ci permette di fare un lavoro concreto per i cittadini».
Rete che nasce dal consenso sul territorio.
«Il radicamento è l’ultimo baluardo, ma le sezioni si accorpano perché non ci sono più militanti e continuiamo a perdere sindaci. Si è creduto che si potesse stare in piedi solo con social e reel ma quello ti dà visibilità, ma non ti costruisce una comunità politica. Attirano elettori che domani non ci sono più mentre quando dai delle risposte sul territorio i voti si fidelizzano».
Poi c’è la vannaccizzazione…
«Ci siamo schiacciati troppo a destra, ma non ha senso. Il nostro è un elettorato moderato. Io mi sento moderato, vengo dall’oratorio e sono un cattolico praticante. La Lega è cresciuta in Lombardia e Veneto, “regioni bianche” con una cultura precisa. In più abbiamo perso la battaglia culturale».
Spieghi questa sconfitta.
«FdI lavora sull’identità nazionale. Noi dovremmo lavorare sull’identità locale. Ma non lo facciamo più: niente lingua, niente tradizioni, niente sostegno a gruppi folkloristici e dialettali. E senza cultura non costruisci identità, ma senza identità non c’è futuro politico. Se costruisci un sentimento di territorio questo poi ti sostiene. Invece è stato buttato via tutto».
In Veneto però Zaia ha spopolato e da Brescia è partita la raccolta firme per dargli il ruolo di referente del Nord.
«È un raggio di luce. Se vogliamo salvarci l’unico modo è riprenderci le nostre battaglie. Per questo sostengo l’iniziativa della Lega bresciana e spero si estenda in tutto il Nord».
2 dicembre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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