
Le leggi sulla tutela degli animali in Italia non mancano. Non sempre vengono però applicate in modo corretto. E anche in sede di giudizio a volte capitano delle sorprese. Come è stato nel caso del canile di Sant’Ilario allo Ionio: dopo una condanna in primo grado a 5 anni e 4 mesi per maltrattamenti e gestione irregolare – si parlava di cani detenuti in condizioni non idonee, ingabbiati e non curati né alimentati in maniera corretta, non sterilizzato – nelle settimane scorse la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza assolvendo tutti gli impuntati perché «il fatto non sussiste». E ha restituito la struttura al gestore. Non sono ancora note le motivazioni che hanno guidato i giudici.
«Una delle tante sentenze scioccanti che continuano a partorire le Procure di tutta Italia, nonostante le buone leggi in materia che il nostro Parlamento ha approvato nel corso degli anni – spiega Antonietta Zarrelli, presidente dell’Associazione diritti animali (Ada) Liguria e esperta della materia –. Ma allora perché questo succede ancora, si domandano i cittadini? Il motivo è semplice: procure, giudici, pubblici ministeri spesso non conoscono queste leggi, si affidano al giudizio delle forze dell’ordine che, a loro volta, nella maggioranza dei casi, non hanno ricevuto un minimo di formazione sull’argomento e quindi si trovano prive di strumenti di giudizio».
Ci sono però le Asl veterinarie: qual è il loro ruolo? «I veterinari sono medici e si occupano, da sempre, solo della parte sanitaria degli animali, cioè verificano se sono malati, feriti, sottopeso – puntualizza Zarrelli –. Ma sono le forze dell’ordine che devono accertare e verificare le condizioni in cui gli animali vengono fatti vivere dal loro proprietario o detentore. Va ricordato che nel 2004 con la legge 189, il concetto di benessere animale è cambiato: non più solo benessere fisico ma anche etologico, quindi mentale, psicologico. La legge spiega che, per parlare di reato di maltrattamento, non è necessario che si cagioni una lesione all’integrità fisica dell’animale, poiché i patimenti possono derivare anche da sofferenze di tipo ambientale, comportamentale, logistico, operativo». Come stabilito anche da due sentenze della Cassazione.
Con un esempio, Zarrelli chiarisce: «Se un cane viene alimentato sufficientemente ma non gli si permette di sgambare o di vedere la luce del giorno, se viene isolato e non può socializzare quel cane soffre perché subisce un maltrattamento etologico e psicologico, esattamente come succede agli esseri umani».
Le condizioni di benessere complessivo dovrebbero essere presenti e tangibili in tutti i canili del Paese. Ma alcune regioni del sud e in parte anche del centro Italia, sostiene tuttavia l’esperta, «non vedono applicato nessun tipo di benessere all’interno delle strutture. Non vengono alimentati adeguatamente; non vengono curati; non vengono operati laddove è richiesto un intervento chirurgico. Niente vaccini né antiparassitari. I cani non vengono fatti uscire per sgambare. Non vengono sterilizzati e, ancora peggio, spesso non vengono nemmeno dati in adozione. Sono condizioni di vita inaccettabili».
Tutto questo nonostante gli animali rappresentino una fonte di guadagno per il gestore di canile che ha vinto un appalto o ha firmato una convenzione con il Comune. Quando sono le associazioni animaliste a gestire le strutture, hanno tutto l’interesse a fare adottare gli animali: il loro obiettivo è svuotare al più presto le gabbie. Diverso quando l’obiettivo è incassare le quote che i comuni devono pagare per il mantenimento degli animali. «In questi casi – spiega ancora Zarrelli – queste strutture finiscono per diventare lager, ospitano fino a due o tremila animali, veri e propri “morti viventi”, finalizzati alla sopravvivenza del cane per mero profitto economico».
L’Italia, come detto, ha diverse e buone leggi a tutela degli animali, non ultima la cosiddetta Legge Brambilla recentemente approvata ed entrata in vigore a inizio luglio, che prevede pene più severe e sanzioni pecuniarie aggiuntive per i responsabili dei reati commessi nei loro confronti, li riconosce come esseri senzienti e vieta pratiche in passato considerate «normali» come la detenzione alla catena.
Leggi che tuttavia non bastano a garantire agli animali detenuti nei canili una vita dignitosa. «Purtroppo moltissimi sindaci del sud e del centro, e qualcuno anche al nord, si sono dimenticati del loro ruolo di responsabili del benessere di tutti gli animali presenti sul territorio del comune da loro amministrato – argomenta Zarrelli –. Non solo. Dimenticano di essere anche “responsabili del controllo dell’applicazione delle leggi sulla protezione degli animali”. In altre parole, sono i sindaci che devono controllare che vengano applicate le leggi dentro i canili e sul territorio».
I gestori dei canili, sottolinea l’esponente di Ada, hanno dunque carta bianca se i sindaci non adempiono al loro ruolo di «garanti». E non possono farlo neppure altri soggetti. «È sempre più frequente il divieto di ingresso ai volontari– spiega l’esperta -, nonostante la modifica apportata nel 2007 con la legge 244 che all’articolo 2 comma 371, prevede che debba essere garantita la presenza dei volontari».
Inoltre al sud, rincara la presidente Ada, «i sindaci accettano di affidarsi a gestori che propongono costi talmente bassi per mantenere un cane che entra in canile, da non poter comprare altro che un pugno di crocchette. Eppure le leggi regionali parlano di quote sotto le quali non si può scendere. Queste situazioni, che si protraggono almeno dal 2004, rappresentano per me una vera crudeltà di Stato che si consuma nell’indifferenza generale della politica a prescindere dallo schieramento».
Zarrelli precisa inoltre che è importante ricordare ai sindaci che l’ingresso dei volontari in canile (o gattile) è necessario non solo per poter mandare cani e gatti in adozione e diminuire quindi la spesa pubblica, ma «per migliorare il benessere dei cani che possono essere portati a sgambare, cosa impossibile per i pochissimi dipendenti che i gestori dei canili hanno al loro interno; nonché per fare socializzare gli animali e segnalare situazioni critiche e deficitarie presenti in canile».
I sindaci devono dunque «pretendere che tutti i gestori favoriscano l’ingresso dei volontari, inserendo nero su bianco in bandi e convenzioni questa necessità. Non controllare che vengano applicate le leggi sul benessere degli animali li rende omissivi e passibili di denuncia penale poiché autorizzano un maltrattamento, che è appunto un reato penale. Ricordo altresì a sindaci, procure e forze dell’ordine che con la già citata Legge Brambilla, l’animale è diventato “soggetto giuridico”, dunque non più “res”, ovvero una cosa, ma ha il “diritto a essere tutelato e difeso”. Il maltrattamento sugli animali è diventato un reato perseguibile d’ufficio».
24 novembre 2025
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