Un patrimonio in equilibrio

di ALESSANDRO GIULI Il ministro della Cultura riflette sulle considerazioni avanzate da Andrea Carandini sul «Corriere». La sintesi virtuosa tra memoria e progresso è possibile. Nelle città e sul territorio

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Con il testo che pubblichiamo qui sotto, il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, risponde all’articolo di Andrea Carandini pubblicato sul «Corriere della Sera» di giovedì 7 novembre, intitolato «Siamo storia. Raccontiamolo». La tesi di Carandini, eminente archeologo, è che le città italiane sono contesti vivi e vanno valorizzate con musei che ne illustrino la storia, il patrimonio e le specificità, a partire da Roma e da Napoli. Tra le osservazioni di Carandini: «Tutte le parti politiche dovrebbero cogliere dal passato il bene scartandone il male comprovato, per costruire un futuro degno o migliore delle più fortunate stagioni, dividendosi sulle proporzioni da dare alla tradizione e al progresso ed esercitando — oltre una critica anche radicale — la smarrita virtù rivoluzionaria della fraternité».

Conservo un debito di riconoscenza nei confronti del professor Carandini sin da quando, già nutrito dalle letture dei suoi numerosi scritti, nella primavera del 2008 ebbi l’opportunità di conversare con lui nel Foro romano (ne avrei dato conto sul «Foglio» di Giuliano Ferrara) in occasione dell’uscita del suo Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani, pubblicato da Einaudi e dedicato ad Angelo Brelich, allievo di Raffaele Pettazzoni, fondatore della scuola storico-religiosa romana: «Il mio Brelich resta più grande», mi disse lui, a conferma di un approccio dinamico e multidisciplinare allo studio dell’antichità. Un modus operandi mai disgiunto dalla volontà di mettersi a disposizione delle «magistrature» accademiche e istituzionali della Res Publica contemporanea (basti rileggere a titolo esemplificativo Il nuovo dell’Italia è nel passato, intervista a cura di Paolo Conti, Laterza, 2012).

A distanza di oltre un decennio — lui a sua volta fondatore emerito d’una scuola di archeologia viva che trova in Paolo Carafa e nei suoi scavi nel Lupercale romano un punto d’eccellenza, io da due mesi Ministro della Cultura — Carandini mi ha rivolto su questo giornale giovedì 7 novembre alcune profonde considerazioni che esigono un’attenzione speculare. Anzitutto egli va al cuore dell’idea che ho cercato di illustrare nell’esposizione delle linee generali programmatiche del Mic, il cui punto focale consiste proprio nella volontà di superare la «contrapposizione dissennata» fra tradizione e progresso, nel tentativo di concepire una sintesi tra ciò che finora — per coazione ideologica e pigrizia intellettuale — è stato pensato in opposizione. Carandini evoca un caso esemplare di dialettica irrisolta, quella tra libertà e uguaglianza, due idee portanti e irrinunciabili della modernità, che hanno tuttavia finito per collidere tragicamente nel corso del Novecento e che invece debbono oggi, alla luce di una nuova consapevolezza, trovare armonia e reciproca misura per via della «smarrita virtù rivoluzionaria della fraternità». È la medesima urgenza che ho richiamato, tra l’altro, nel mio recente Gramsci è vivo (Rizzoli), un pamphlet aperto al dibattito delle idee nel quale evoco la migliore cultura azionista di matrice filosofica gentiliana per oltrepassare l’inveterata linea di faglia tra un progressismo sordo, nemico della memoria quale fonte inesausta del nostro presente (vedasi da ultimo il Follemente corretto formulato di recente da Luca Ricolfi per La nave di Teseo) e il richiamo a foreste perdute abitate da residui fantasmi nostalgici e infeconde utopie regressive.

A tale riguardo la consonanza ideale è completa; così come un idem sentire si proietta sulla constatazione carandiniana che «le nostre città sono contesti vivi» e che «ciascuna merita un museo che la spieghi», a cominciare da Napoli e Roma. Carandini sostiene che tutto è sempre contemporaneo, che lo spazio del presente è simultaneamente abitato sia dal suo passato sia dal futuro, che non è possibile immaginare un avvenire se non si è consapevoli curatori di una tradizione, non per adorarne le ceneri ma per custodirne il fuoco. Ma c’è modo e modo per farlo. Sbagliato è comprimere il nostro sguardo, il nostro agire, alla pietrificazione museale di «capolavori venerati come feticci» muti. Indispensabile invece è partire dall’assunto che «l’Italia è un enorme contesto a cielo aperto» che ancora attende di essere raccontato da una «archeologia della modernità» capace di narrarne coerentemente la storia e le stratificazioni, con l’obiettivo di «tutelarne i giardini e gli arredi». Tutto ciò, identificando grandi luoghi da restaurare e ai quali restituire la parola attraverso immagine e scrittura tridimensionale sorrette dalle tecnologie di ultima generazione: dalla Crypta Balbi capitolina all’Albergo dei poveri a Napoli, le sedi naturali dei Musei della Città, contravveleno naturale all’attuale dispersione statica e priva di «decrittazione» inflitta al turismo dello «Small Tour» oltreché ai nostri connazionali. E che fare, poi, con siti e monumenti «tutelati ma non adeguatamente gestiti e valorizzati»?

Anche in questo caso, fatalità, il Mic ha stabilito di rafforzare e velocizzare il piano di recupero e di rilancio del sito scavato di Daniele Manacorda in via delle Botteghe oscure; e di modificare il progetto di allestimento dell’Albergo dei poveri avviato con lungimiranza dal mio predecessore secondo il medesimo canone di «innovativa diacronia». Obiettivo: dare vita e luce, appunto, al Museo di Roma e a quello di Partenope.

Carandini suggerisce poi di stabilire accordi con il Fai, da lui già presieduto, come modello di cooperazione per aiutare gli italiani «a essere consapevoli di varie decine di migliaia di luoghi sconosciuti». E qui torna al centro l’idea del contesto, il cui significato profondo sta nel tessere insieme, intrecciare, idee e fatti, luoghi e racconti. Ho già avuto modo di confrontarmi con l’attuale presidente del Fai, Marco Magnifico, per procedere in tale direzione e valutare la comune gestione della magnifica quanto clandestina (sia pure per vocazione fondativa) Basilica Pitagorica di Porta Maggiore a Roma e, ove possibile, della Villa-Parco «borrominiana» creata e abitata da compianto Paolo Portoghesi con sua moglie Giovanna a Calcata (Viterbo). Ecco dunque riemergere la forza civica e paesaggistica del contesto: i musei delle città intesi come spazi per risvegliare il passato e comprenderlo nella sua contemporaneità e proiezione futura (proprio accanto alla Cripta di Balbo, nella adiacente via Caetani, nel 1978 fu trovato il cadavere di Aldo Moro; non lungi dal luogo del cesaricidio del 44 a.C.).

Quanto ai contesti rurali, ai borghi e alle periferie urbane, anche qui da una parte si dovrebbe raccontare il genius loci, magari alla maniera di Vernon Lee (The Spirit of Rome, 1910), ovvero lasciarlo risuonare con lo sguardo delle origini: nel caso di Roma «gli spazi interni naturali caratteristici del paesaggio delle forre… quella strutturalità basata sulle cavità risonanti» di quelle «scogliere di tufo dell’Alto Lazio» che esprimono l’analogia «tra il muro di confine del Foro di Augusto e l’abside di San Pietro o la facciata di San Carlino»; e al contempo recuperare la struttura dei quartieri cittadini in omaggio all’idea di «città policentrica» (in sideris forma) che il qui citato Portoghesi (Roma/AmoR, Marsilio, 2019), grazie agli studi di Piero Maria Lugli, riconnetteva alla stella augustea a sei raggi, il Sidus Augusti della Roma storica costruita intorno alla raggiera delle vie consolari e che un passo oscuro della Naturalis Historia di Plinio accosta al Nome segreto dell’Urbe.

Le intuizioni di Carandini ci hanno dunque condotto a bordeggiare la polarizzazione tra aree metropolitane ridotte al puro funzionalismo e zone interne spopolate; un’urgenza che vale il richiamo ad Adriano Olivetti, nella cui concezione sociale la «Città dell’Uomo» non è un semplice spazio di insediamento ma un fine, una meta ideale che i Beni culturali, i luoghi della conoscenza, l’architettura e l’urbanistica, i musei destinati a raccontare la storia, possono inverare.

Da ultimo. Le sollecitazioni di Carandini mi offrono l’opportunità di precisare il mio richiamo al «Pensiero solare» presente nell’intervento all’ultima Buchmesse di Francoforte, sul quale si sono addensati alcuni motteggi (sempre benvenuti) e certe maldicenze fuori fuoco, diciamo. Tale espressione, esplicitamente tratta da Albert Camus (da L’uomo in rivolta a L’estate e altri saggi solari, Bompiani), nasce da una sensibilità magno-greca e mediterranea che nel filosofo francese ha trovato forzati accenti anti-romani motivati da un contesto storico totalitario («Il fascismo fece un uso pubblico della storia, manipolandola politicamente e imbrogliando gli italiani…» laddove «la Repubblica di Roma rappresenta il comune retroterra di tutte le esperienze democratico-liberali contemporanee», ci ricorda invece Carandini nella conversazione con Paolo Conti). Per quanto mi riguarda, il «Pensiero solare» altro non è che la Metafisica (insieme logica, etica ed estetica) di Platone (428/7-348/7 a.C.), cioè la più alta forma di speculazione riguardante la scienza dell’essere di tutto il pensiero filosofico occidentale. Nell’opera del grande filosofo greco, infatti, l’idea di Bene (e ne La Repubblica il Sole ne è appunto significativa e perfetta metafora) coincide con quelle di Vero e di Bello.

E visto che qualcuno, lusingandomi oltre misura, ha accostato la mia persona a quella di Giuliano (332/1- 363 d.C.), imperatore romano e grande filosofo neoplatonico, approfitto ancora per citare una sua magistrale affermazione, tratta significativamente dal capolavoro A Helios Re (or. 11, 132-c, trad. ediz. Valla/Mondadori), redatto nell’aureo solco del Bene/Sole di Platone (Resp. VI 508-b, il cui brano vi viene esplicitamente citato dopo). Ecco le parole di Giuliano: «Questo universo divino e assolutamente splendido, che si estende dalla sommità della volta celeste fino all’infimo della terra, tenuto insieme dalla continua provvidenza del dio, esiste increato dall’eternità e in eterno esisterà nel futuro». Questa visione del cosmo non creato, da me perfettamente condivisa, si accompagna a un’intuizione dell’eternità che è in antitesi sia con il creazionismo biblico, sia con le teorie ciclico-cosmologiche tradizionaliste cui aderiva il pensiero di Julius Evola.

11 novembre 2024 (modifica il 11 novembre 2024 | 09:28)

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