Siamo storia. Raccontiamolo

di ANDREA CARANDINI Le nostre città sono contesti vivi, ciascuna merita un museo che la spieghi. Un grande archeologo scrive ad Alessandro Giuli, neoministro della Cultura. Ecco le sue proposte

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Dopo aver dedicato l’estate a dialoghi fuori dal tempo tra Seneca e Faust sulla morale — ormai perduta: non abbiamo più limiti! — torno all’attualità ora che abbiamo un nuovo ministro della Cultura, Alessandro Giuli, al quale rivolgo alcune idee soprattutto riguardanti l’archeologia.

La destra ha il culto della tradizione e la sinistra quello del progresso: contrapposizione dissennata, ché la tradizione contiene anche veleni e un progresso sventato può causare gravi danni, come una pubblica istruzione distrutta più che riformata dalla faciloneria ricompensata da consenso. Invece, tutte le parti politiche dovrebbero cogliere dal passato il bene scartandone il male comprovato, per costruire un futuro degno o migliore delle più fortunate stagioni, dividendosi sulle proporzioni da dare alla tradizione e al progresso ed esercitando — oltre una critica anche radicale — la smarrita virtù rivoluzionaria della fraternité.

È normale che nel Paese delle «cento città» manchino i musei che spieghino le città stesse, che tanta fortuna hanno avuto Oltralpe? Non possiamo raccontare e far vedere, ad esempio, la storia di Roma e di Napoli.

Tradizionalmente ci piacciono le antologie di capolavori, venerati come feticci, mentre siamo analfabeti riguardo ai contesti rurali e urbani. La scusa avanzata nel dare per scontate la città è la seguente: «Si spiegano da sole». Il che è in piccola parte vero a partire dal tardo medioevo, ma falso per l’antichità e l’alto medioevo, finiti entrambi sotto terra. Emergono sovente ruderi, anche imponenti, che tuttavia vengono trattati — antologicamente — come monumenti scissi da ogni tessuto paesaggistico.

Popolo e classe dirigente definiscono l’Italia come un «museo a cielo aperto» (la stessa direzione generale dei Musei scorda nel suo nome che monumenti e siti sono lembi di contesti e non ospedali di bellurie). L’Italia è in verità tutto il contrario: un enorme contesto a cielo aperto, tra i più belli del mondo: centuriazioni, terrazzamenti, coltivazioni, ville e abitati, salvatisi prima dalla rivoluzione industriale e ora dalla riconversione ecologica: pale e specchi, invece di sorgere in luoghi appropriati, dilagano sciupando pregiati panorami.

Se non è scaduto il tempo delle antologie storico artistiche è giunto senz’altro quello — anche per noi amanti del ritardo — dei contesti «archeologici» e il ministero dovrebbe aprirsi a tale prospettiva inusitata. Normalmente l’archeologia è sinonimo di roba vecchia… Invece è il metodo per indagare e raccontare i contesti di ogni tempo! Ad esempio: quanto sarebbe utile un’archeologia della modernità che tuteli e valorizzi, non solo i soliti muri e capolavori, ma le architetture unite ai giardini e agli arredi, tradizionalmente tralasciati e che vanno sempre più perdendosi, come nel caso di palazzo Sacchetti in via Giulia! Si potrebbe inaugurare la svolta culturale che propongo partendo proprio da Roma e da Napoli, dotandole di un loro «museo della città», e cioè — paradossalmente — del racconto di un contesto.

A Roma esiste un grande luogo vuoto da restaurare, dotato di un fondo cospicuo già stanziato, grande quasi un ettaro, con 80 mila metri cubi coperti e vasta area scoperta. Si trova in via delle Botteghe Oscure ed è un isolato privo di abitanti, eretto sul teatro romano di Balbo. È stato oggetto di uno scavo che ha fatto epoca per la sua innovativa diacronia, diretto da Daniele Manacorda, bruscamente interrotto. Di questo complesso sono parte la chiesa bellissima di Santa Caterina dei Funari e il museo di quel quartiere della città. Bisognerebbe visitare il luogo da anni abbandonato con questa idea in testa, per constatare se è adatto allo scopo.

A Napoli esiste il complesso settecentesco a tre peristili del Fuga, l’Albergo dei poveri, di cui è stato previsto il restauro. Quale architettura più adatta per raccontare Napoli e il suo territorio a partire dalla città greca, fino alla scoperta di Pompei, considerata qui dal punto di vista della capitale del regno… Fa parte della storia della vecchia capitale anche il fatto che i reperti bronzei e ceramici meno vistosi di Pompei siano stati ammassati nell’impenetrabile sottotetto del Museo archeologico, somigliante a un carcere tanto da essere chiamato «Sing Sing»: un insieme scartato perché riguardante l’uso e costume e non l’estetica, ma che va senz’altro esposto.

Queste due iniziative dello Stato incoraggerebbero l’intero Paese a intendere che una città non è una entità statica che si conosce passeggiando, ma un fiume carsico e labirintico da decriptare e illustrare, meandro per meandro. Sarebbe l’antidoto più appropriato agli sfondi urbani per selfie: il modo attuale di tutto prendere senza nulla intendere. Invece dovremmo fare in modo che i turisti, quando lasciano l’Italia, abbiano migliorato cuore e mente nel loro «Small Tour» (ci vorrebbero spettacoli multimediali notturni su schermo al Colosseo, nella cavea pavimentata, che mostrassero l’Urbs).

Ricordo che in passato ho contribuito a proporre, inutilmente, un Museo dell’Italia al Quirinale (particolarmente adatto sarebbe il palazzo della Panetteria che ora fronteggia la futura Biblioteca di archeologia e storia dell’arte). Così la «Casa degli italiani» racconterebbe l’Italia… Sarebbe analogo al Museo della Germania a Berlino. Ma per idee grandi occorrono grandi uomini, come Helmut Kohl.

Una considerazione più generale: quale sarà il destino dei siti e monumenti che dipendono dalle Soprintendenze e non dai Musei del ministero —, tutelati ma non adeguatamente gestiti e valorizzati? Potrebbero diventare alternativi agli affollamenti urbani, sempre più insopportabili. Perché non stabilire al riguardo accordi con il Fai che, oltre alle sue impeccabili proprietà, ha aiutato gli italiani a essere consapevoli di varie decine di migliaia di luoghi sconosciuti, scelti dalle comunità locali? Insomma, ministero, università e fondazioni a fine pubblico: tutti insieme per l’Italia da salvare. Più utile della solita guerra civile anche limitata alle parole.

Signor ministro, l’archeologia è fatta da antiquaria e storia dell’arte, che servono nei musei, e da tipologia, stratigrafia e topografia, essenziali alla ricerca sul campo e al suo racconto. Una tale distinzione mai è mai stata chiara nelle assunzioni e nelle funzioni del ministero. Infine, perché il restauro ha da molto tempo le sue regole, mentre scavi, ricognizioni, edizioni e valorizzazioni sono ancora allo sbaraglio? A ciò avrebbe dovuto provvedere l’Istituto centrale di Archeologia del ministero, di cui ho approvato otto anni fa la fondazione, ma che purtroppo ha smarrito l’obiettivo.

10 novembre 2024 (modifica il 10 novembre 2024 | 18:32)

10 novembre 2024 (modifica il 10 novembre 2024 | 18:32)