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«… Per la tua piccolina / non compri mai i balocchi, / mamma tu compri soltanto i profumi per te!» Fu lì che si piantò. Prima della seconda strofa che sarebbe stata: «Ella, nel salotto profumato / ricco di cuscini di seta…». Macché, il vuoto. Panico. Eppure la sapeva tutta, quella canzone Balocchi e profumi, scelta per il concorso canoro all’«Ala Bianca» di Bellaria dove certe sere di quell’estate ’52 la balera romagnola organizzava gare per bambini. La sapeva parola per parola, ma di colpo fu tutto buio. L’orchestrina, ospitata in «un’enorme conchiglia, una grande capasanta azzurra rialzata», andava avanti e lui niente. Muto. «Passò un tempo che gli parve infinito. Poi il presentatore prese in mano la situazione. Guadagnò il centro della pista sorridente con un incedere rassicurante. “Dai, non è niente. È solo l’emozione… che a volte può giocare brutti scherzi”».
«Non buona la prima», ride Franco Mussida raccontando il suo esordio come frontman nell’autobiografia Il bimbo del carillon, in uscita oggi per Salani. Facile sorriderne oggi, dopo una marea di concerti in tutto il mondo, anche «davanti a centinaia di migliaia di persone come in certi grandi raduni americani». Ma allora, a cinque anni… Perché lui, a dispetto del corpaccione grande e grosso che ispirò a Teo Teocoli il nomignolo di «Grizzly» e dei lunghi capelli grigi che sotto i riflettori paiono la scia d’una cometa, dentro si sente ancora proprio come quel bambino che scoprì la stella polare della sua vita, la musica, attraverso quel «piccolo cilindro di legno scuro del carillon che girava lento su sé stesso» lasciando uscire «un suono bellissimo, limpido, trasparente, gioioso e ondeggiante».
Studiare no, non era per lui. Famiglia modesta incapsulata in un caseggiato popolare alla periferia milanese, unico lusso le bocce al dopolavoro, pochi grilli per la testa. Suo padre Edoardo, operaio allo smistamento ferroviario delle Poste, «voleva orientarlo verso la meccanica, gli utensili, i torni. Passate le elementari, lo aveva subito iscritto in una scuola dove si lavoravano blocchi di metallo le cui superfici andavano passate con il blu di Prussia per evidenziare gobbe e avvallamenti che andavano lisciati con le lime da ferro. Un mondo fatto di misure al calibro e tolleranze da rispettare. Raggiunti i quattordici anni, dopo tre mesi passati nella scuola per periti industriali (un’espressione che gli dava i brividi) si rifiutò di continuare». La musica: quella gli interessava. Solo quella.
Adesso, dopo aver portato la sua creatura, il «CPM Music Institute» fondato quarant’anni fa col nome di Centro Professione Musica fino a diventare una Scuola di Alta formazione artistica e musicale così prestigiosa da venir riconosciuta dal Miur al punto di fornire diplomi equivalenti alla laurea triennale, può dire d’avere vinto la scommessa.
Corretta da un maestro di chitarra classica l’arte nella quale si era buttato a capofitto da autodidatta, a quindici anni era già capace di tali virtuosismi da dare lui stesso lezione ai bambini più piccoli e da partire con l’orchestra «Tutto per i Ragazzi» nella prima «tournée» in mezza Europa nei circoli di emigrati italiani: «Paese mio che stai sulla collina… non era solo una canzone dei Ricchi e Poveri, Che sarà era il loro vero inno». E poi su, su, su coi primi concerti fino alla telefonata («Avevamo il duplex, l’abbonamento alla Stipel più a buon mercato. Due famiglie per una sola linea, se alzavi la cornetta per chiamare e trovavi occupato, dovevi aspettare») che gli avrebbe cambiato la vita: «Ti va di venire a suonare la chitarra nel mio gruppo?». Primo incontro in una trattoria, trippa e cotechino con lenticchie, dove si presentò con un completo grigio che la mamma gli «aveva comprato all’Onestà, uno dei primi grandi magazzini del periodo post-bellico». Stravagante, diciamo così, «per un ragazzo del periodo beat». Alla parete c’era appesa una chitarra: «Ci fai sentire qualcosa?». Mancavano due corde su sei. «Uno strumento monco, uno struzzo a cui si chiedeva di volare». Ci provò lo stesso. Fu la culla della futura Premiata Forneria Marconi.
Quasi mezzo secolo di ricordi. Di collaborazioni in studio, per la sua eccellenza come strumentista e arrangiatore, nell’incisione di canzoni indimenticabili con Lucio Battisti e Adriano Celentano e Paolo Conte e tanti altri artisti che, come Obelix era stato benedetto dalla caduta nel pentolone della «pozione magica» di Panoramix, ebbero una fortuna: essere «bagnati da una pozione magica che c’è piovuta addosso da ragazzi durante un temporale, magico, spirituale. Un uragano al contrario che se fai i conti è durato… sette anni. Pioveva dall’occhio sereno del ciclone. Ci pioveva addosso luce, invisibili chicchi di grandine, ripieni del senso più profondo delle cose. Pioveva nelle periferie, sui mercati rionali, per le strade, su scuole, università e fabbriche. Pioveva senso della bellezza. Pioveva alla grande senso religioso. Pioveva senso dell’arte, povera sì, ma piena di visioni». Con persone speciali come Fabrizio De André che all’inizio, confida il Bimbo, non era tra i suoi preferiti ma con il quale avrebbe trovato un’intesa tale da collaborare e «rivestire» musicalmente pezzi straordinari come La storia di Marinella o Il pescatore, rivista con arrangiamento ispirato «alla tradizione messicana dei mariachi».
Ed ecco ricordi lontani come la naja sul cacciatorpediniere «San Giorgio» su cui girò mezzo mondo vomitando l’anima «anche con mare forza olio» e passando notti sull’Atlantico «a guardare in tre dimensioni tutta la magnificenza della Via Lattea». Teneri come l’incontro con l’amore di tutta la vita Loredana, durante la sua prima licenza, a una festa di ventenni dove «lei era la regina». Dolorosi come la morte di Maurizio, un bravissimo ragazzo conosciuto in una prigione dove andava col suo progetto CO2 (esteso fino a coinvolgere 1e carceri italiane) per «disinnescare l’odio» e che era così schiavo dell’eroina che si spinse a fregargli tre assegni per comprarsi la siringa che gli avrebbero trovato in vena, morto di overdose in un fosso. Struggenti come il giorno in cui andò a Milo a trovare Franco Battiato e parlarono per ore «dei dervisci rotanti e dei sufi». Insomma, il diario d’un «vecchio suonatore di emozioni» che, dedicata metà della sua vita agli altri, dai detenuti ai ragazzi disabili dell’«Orchestra AllegroModerato», ha ancora delle cose da dire…
L’incontro venerdì 8 a Milano
«Il bimbo del carillon» di Franco Mussida esce l’8 novembre per Salani (pp. 400, euro 20). Mussida (Milano, 1947) è musicista, compositore e artista: qui sopra, la sua copertina realizzata per «la Lettura» #626 del 26 novembre 2023, divenuta poi anche un’opera Nft. L’autore presenterà il suo nuovo libro l’8 novembre a Milano alle 18.30 alla Feltrinelli di piazza Piemonte con Gian Antonio Stella ed Emanuela
Rosa Clot.
8 novembre 2024 (modifica il 8 novembre 2024 | 12:04)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
8 novembre 2024 (modifica il 8 novembre 2024 | 12:04)
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