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Questa cronaca familiare di Pietro Citati, forse il più (ingiustamente) negletto dei suoi libri, venne pubblicata da Rizzoli nell’apocalittico e tumultuoso 1989. Citati stava per compiere i sessant’anni, aveva già scritto il Kafka e dopo la Storia prima felice, poi dolentissima e funesta sarebbe uscita una delle sue raccolte più felici di saggi brevi, Ritratti di donne. Siamo dunque all’apice di una carriera di prosatore che non smette di stupire per la ricchezza dei temi, la qualità dello stile, la conoscenza del cuore umano che la pervade, con alterni accenti di empatia, di ironia, di spietata intelligenza. Tra i sessanta e i settant’anni Citati avrebbe scritto un libro capitale come La colomba pugnalata e avrebbe portato a termine l’enorme lavoro su Omero e sulla mitologia greca, che gli era costato la composizione della Mente colorata — credo che il libro su Ulisse sia stato il supremo esercizio di conoscenza a cui si è sottoposto in tutta la sua lunga e laboriosissima vita.
In questo quadro, la Storia prima felice, poi dolentissima e funesta fa storia a sé. Anche in questo caso Citati mette in gioco le sue supreme capacità di lettore e interprete, ma si tratta di documenti privati, fino ad allora sepolti nei cassetti delle case di famiglia, che raccontano una storia che va dagli anni Trenta agli anni Cinquanta dell’Ottocento, la storia del matrimonio di Gaetano Citati e Clementina Sanvitale. Il materiale di Citati, a parte qualche altro documento d’archivio, consiste essenzialmente di lettere: tutti i personaggi del libro sono legati dalle fitte maglie di una rete epistolare che è come la materia prima della loro vita interiore, il suo tessuto connettivo. Il titolo stesso del libro proviene da questi documenti privati: fu l’inconsolabile Gaetano, dopo la morte precoce della moglie, a definire così, con perfetta sintesi, le lettere di Clementina che aveva religiosamente conservato, sigillandole con un cartiglio.
Lavorando su questa base, il discendente di Clementina e Gaetano si assegna un compito tutt’altro che parassitario. È il suo racconto, il suo doppio ritratto, a dare vita ai documenti privati, non solo perché ne spiega le circostanze e i significati sottintesi, ma perché li colloca credibilmente nel loro tempo storico, nella mentalità del loro ceto sociale, in una geografia (quasi) tutta mediterranea, tra Genova, Marsiglia, Algeri, Palermo e Alessandria d’Egitto. Citati si comporta da narratore classico, facendo la spola tra il carattere dell’uno e dell’altra, sorvolando le città, infilandosi in salotti e camere da letto, rendendo conto delle irruzioni della Storia nelle vicende private dei due sposi. Per quanto troppo breve, e spazzata via da una sorte avversa, il legame tra Gaetano e Clementina fu effettivamente felice e intenso come un sogno romantico. Non era scritto da nessuna parte che dovesse andare così: quando Clementina raggiunge Gaetano ad Algeri, dopo il matrimonio per procura celebrato a Genova, non si erano ancora incontrati di persona.
Non basta: è difficile immaginare due caratteri così diversi. Da una parte c’è la soave Clementina, «una piuma lieve e dolorosa nel fiume della storia universale», moglie e madre tenerissima e generosa, morta nel dicembre del 1848 di epatite, o di qualche altro oscuro male impossibile da diagnosticare a quei tempi, prima che la vita facesse in tempo a disilluderla e amareggiarla. Tutt’altra pasta è quella di Gaetano, carbonaro siciliano e uomo d’affari e d’intrighi, sempre amareggiato dai suoi simili, testardo nelle sue illusioni, volitivo e avventato. Sembra uscito dai Misteri di Parigi di Eugène Sue, e le sue lettere a Clementina, a parere di Citati, rivelano una singolare «combinazione di ansia e di pedanteria» tipica di quegli spiriti inquieti, forse inclini alla paranoia, che pretendono di governare l’esistenza e i suoi imprevisti procedendo di dettaglio in dettaglio, e perdendo fatalmente il quadro d’insieme. Non saprei dire quale soggetto di questo doppio ritratto abbia maggiormente ispirato Citati: Clementina gli detta pagine più commosse, dalle quali traspare un maggiore livello di empatia; Gaetano, d’altra parte, è un personaggio romanzesco più complesso, un artista del fallimento capace di accendere nel pronipote lampi di ironia degni di un romanziere vittoriano. Lo affascina l’orgoglio dell’avo, e lo diverte la sua inutile scaltrezza, la sua verbosa sicurezza di sé e dei suoi diritti. Ma sa percepire esattamente, nelle vecchie lettere che esamina, la preziosa filigrana di un amore purissimo, da libretto d’opera.
La vera posta in gioco della Storia di Citati, d’altronde, non consiste né in Clementina né in Gaetano, ma nel mistero della loro relazione, della loro felicità. Mi viene in mente a questo proposito il titolo del romanzo breve di Tolstoj, La felicità domestica, pubblicato nel 1859. L’età di Clementina e Gaetano è anche quella in cui la letteratura, immergendosi nella prosa della vita quotidiana, inizia a scandagliare nei suoi risvolti più ambigui e delicati l’intimità coniugale, con una profondità e un realismo mai prima conosciuti. Ne fa fede Balzac che, nel 1829, presentando ai lettori la sua Fisiologia del matrimonio, afferma orgogliosamente che «non esisteva né una guida né una bussola per i pellegrini del matrimonio: il mio libro si propone di procurargliela». Nei trent’anni che separano il trattato di Balzac dal romanzo di Tolstoj, affiora nella coscienza europea questo vero e proprio continente sommerso che è la vita privata, che si esprime senza la guida di affidabili, riconoscibili stereotipi narrativi.
Il romanzo e la pittura sono i grandi veicoli di questa rivoluzione percettiva, che punta sui singoli individui, che magari si assomigliano un po’ tutti, ma incarnano un destino unico e irripetibile, così com’è modellato dai fatti della vita, nel loro imprevedibile verificarsi. Cos’è che rende una vita normale degna di essere vissuta? Mentre i romanzieri dell’Ottocento tentano di dare una risposta (sempre opinabile e provvisoria) a questa nuova domanda, i loro contemporanei si lasciano dietro innumerevoli testimonianze dirette, affidate a lettere, diari, memoriali. Sanno parlare di sé come nessuna generazione aveva mai saputo fare in precedenza, e anche quando manifestano sentimenti sublimi, o quando si abbandonano alle loro aspirazioni più chimeriche, non perdono mai di vista la materia prima dei loro giorni, che consiste di abitudini e affetti familiari, conti da far quadrare, gravidanze, malattie più o meno letali, testamenti e compravendite…
Ridare voce a delle vecchie carte di famiglia è come far parlare i morti, ma quello che accade nel processo di scrittura ha ben poco a che vedere con un atto di semplice registrazione. Riportando alla luce le tracce dei suoi antenati, il narratore-erede le amplifica, le colloca nel loro orizzonte di senso, e ne fa quella storia che da sole non saprebbero essere. Le tratta, insomma, come Citati trattava i libri e le opere d’arte di cui discorreva nei suoi saggi, sempre attento a non dare nulla per scontato, a interrogare ogni parola per inserirla in quel grande tessuto di allusioni e somiglianze che per lui era il mondo. Ed è in questa maniera che un archivio familiare di persone comuni, opportunamente interrogato e interpretato, può diventare un’immagine credibile dell’esistenza umana, una goccia che riflette tutti i colori dell’oceano da cui proviene.
È pure possibile che Citati, col suo orecchio finissimo, sia riuscito a cogliere nelle lettere di Clementina e Gaetano un messaggio che andava captato e tradotto prima che fosse troppo tardi, prima che la polvere della dimenticanza coprisse del suo velo opaco e uniforme quelle vite, che furono imperfette e sottoposte, come tutte le nostre vite, al fuoco di fila di contingenze imprevedibili, e all’azione disgregante di immani forze storiche in grado di schiacciare sotto il loro tallone ogni individuo, si chiamasse Napoleone Bonaparte o Gaetano Citati. Poche, pochissime vite si salvano dal destino universale, trovando un Citati capace di avvolgere la loro matassa di bisogni e desideri, infermità e speranze. Se ancora ci parlano, se possiamo vedere in loro un oracolo o un oroscopo, non è grazie alle loro pittoresche ingenuità, alle loro malizie, ai loro disincanti, ma perché chi ha percorso prima di noi la strada accidentata della vita ci ha preceduto in quella ricerca della felicità che è il nostro compito e il nostro destino. Citati lo aveva capito, e questo suo libro, tutt’altro che “minore”, è molto più una confessione che una semplice testimonianza.
1 novembre 2024 (modifica il 1 novembre 2024 | 15:31)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
1 novembre 2024 (modifica il 1 novembre 2024 | 15:31)
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