Quale sarà la risposta di Israele all’Iran?

di Gianluca Mercuri Le posizioni di Teheran, Tel Aviv e Washington e i dilemmi sulle sanzioni al petrolio iraniano e sulla posizione di Netanyahu diviso tra ostaggi, Gaza e l'ombra di una guerra totale

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«Abbiamo una seconda possibilità. Il mondo è tornato dalla nostra parte come l’8 ottobre. Vediamo quanto velocemente la sprechiamo questa volta».

È la citazione di un generale israeliano stanco, dotato di ironia amara e pronto al peggio, come la gran parte dei suoi connazionali. La seconda possibilità cui si riferisce è quella che l’Iran ha regalato allo Stato ebraico con l’attacco di sabato notte, quei 110 missili balistici, 185 droni e 36 missili da crociera neutralizzati dal sistema difensivo di Israele e dalla coalizione internazionale a guida americana, con la clamorosa partecipazione di diversi Stati arabi moderati.

Il regalo consiste in questo: da tre giorni non si parla più di Gaza, del modo in cui interrompere la carneficina di civili palestinesi e liberare gli ostaggi israeliani in mano a Hamas, una questione che l’attuale governo di Israele vive con malcelata insofferenza, perché ostacola la «vittoria totale» sui terroristi ; Joe Biden ha confermato che, nonostante il duro contrasto che lo oppone a Benjamin Netanyahu, lo scudo americano a protezione di Israele non è in discussione; Israele è uscita dall’isolamento e ha incassato una solidarietà che più concreta non si può.

In questo senso si è tornati al giorno dopo il pogrom di Hamas, la mattanza di 1.200 israeliani che ha fatto scoppiare questa guerra. Una guerra giusta e inevitabile, nella necessità rispondere al più grande eccidio di ebrei dopo la Shoah; una guerra fattasi poi ingiusta e inaccettabile nella percezione dell’opinione pubblica internazionale, per lo spaventoso numero di vittime innocenti, tra morti, feriti e profughi.

Ora, la risposta di Israele all’Iran è certa: potrebbe arrivare dopo la Pasqua ebraica, tra una decina di giorni, o prima. Se il mondo è con il fiato sospeso, è perché attende di capire la portata di quella risposta.

Sarà una rappresaglia significativa ma circoscritta, in modo da evitare la tanto temuta escalation, o al contrario — per calcolo o per azzardo — rischierà di provocare un drammatico allargamento del conflitto?

Come scrive Danilo Taino, l’Iran — sponsor di Hamas, ma rimasto per sei mesi fuori dalla mischia — «ha trasformato un vantaggio che stava accumulando contro Israele in un mezzo disastro». È l’effetto della risposta all’attacco israeliano del 1° aprile alle sue sedi diplomatiche in Siria, ovvero «il vicolo cieco nel quale si cacciano spesso le autocrazie: essere obbligate a mostrare i muscoli, per ragioni interne e di reputazione del regime, anche quando ciò non è saggio o addirittura folle».

Ma ora la palla è di nuovo nel campo del primo ministro israeliano: «Se Netanyahu decidesse di fare prevalere la vendetta, la rappresaglia a 360 gradi o comunque dura, in effetti getterebbe via il vantaggio che inaspettatamente si è ritrovato. Sono la diplomazia e la capacità politica, ora, a offrire la possibilità di costruire sulla nuova situazione, di isolare ulteriormente l’Iran, in una collaborazione tra Israele, Washington, i Paesi arabi cosiddetti moderati, Londra, Parigi».

Perché quello di Biden è uno scudo difensivo, che rende Israele intoccabile. A quello scudo, l’America aggiungerà nuove sanzioni all’Iran. Ma una guerra totale, che incenerisca il suo piano di pace già pronto — una pace vera, quindi con uno Stato palestinese — il presidente farà di tutto per evitarla.

Cosa dice Israele

La posizione ufficiale è quella di Daniel Hagari, portavoce delle forze armate: «L’Iran non può restare impunito». Per Benny Gantz, il leader centrista che preme per sfidare Netanyahu alle elezioni ma ha scelto di affiancarlo in questa guerra, va punito così: «Dobbiamo costruire un’alleanza globale perché Teheran è una minaccia globale. Risponderemo nel momento, nel luogo e nel modo che riterremo più adatto». E Netanyahu? Da sabato solo un post: «Li abbiamo intercettati. Li abbiamo fermati. Insieme vinceremo». Nulla di più. Su tempi e modi, scrive Davide Frattini, c’è insomma divisione.

Cosa dice l’Iran

Toni minacciosi, muscoli esibiti ancora una volta per nascondere un’attesa nervosa: «I sionisti devono sapere che questa volta non avranno 12 giorni e che la risposta che riceveranno non sarà calcolabile in ore o giorni, sarà data in pochi secondi», ha detto il vice ministro degli Esteri Ali Bagheri Kani. «Siamo pronti a usare un’arma che non abbiamo mai utilizzato prima», ha aggiunto Abolfazl Amouei, portavoce del Comitato di Sicurezza Nazionale del Parlamento (Guido Olimpio spiega perché i 9 missili che hanno «bucato» lo scudo israeliano non sono un segnale trascurabile).

Cosa dice l’America

La Casa Bianca, secondo la Cnn, si aspetta una «risposta limitata» di Israele. Il portavoce John Kirby ha ribadito che sta a Israele decidere «se e come rispondere», ma che l’America «non vuole una guerra con l’Iran o una escalation». La segretaria del Tesoro Janet Yellen ha annunciato nuove sanzioni al regime degli ayatollah, per ostacolare «i finanziamenti al terrorismo».

Il dilemma del petrolio

Come spiega la nostra corrispondente Viviana Mazza, «alcuni osservatori ritengono improbabile che l’amministrazione Biden inasprisca le sanzioni sulle esportazioni di petrolio iraniano, a causa delle preoccupazioni per l’impatto che avrebbero sul prezzo del petrolio e per evitare di irritare la Cina, che ne è il più importante acquirente». Il che «crea un dilemma per la Casa Bianca: come ripristinare la deterrenza senza arrivare ad una escalation del conflitto in Medio Oriente e senza destabilizzare i rapporti con Pechino?». Per questo, le misure già approvate dalla Camera Usa sono pesate con prudenza dall’amministrazione. Oltretutto, un aumento del prezzo del petrolio dovuto all’aggravarsi della crisi mediorentale avvantaggerebbe le esportazioni russe.

Ma il vero dilemma si chiama Bibi

Ovvero Netanyahu. Biden gli chiede di finire la guerra a Gaza, patteggiare il rilascio degli ostaggi, avallare un piano complessivo per una stabilizzazione regionale, con il riconoscimento reciproco tra Israele e gli Stati sunniti (compresa l’Arabia Saudita) e un processo che porti a uno Stato palestinese, condizione tornata irrinunciabile per il mondo arabo moderato.

Da tempo la Casa Bianca sospetta però che «Bibi» voglia, al contrario, trascinare l’America in una guerra totale con l’Iran, proprio per stoppare un processo che ha come destinazione la Palestina. L’attacco senza precedenti alle sedi diplomatiche (dunque al territorio) dell’Iran lo confermerebbe.

Nel resistere alle pressioni Usa, il premier si appoggia alla componente estremista e fanatica del suo governo, la usa e ne è ostaggio al tempo stesso. Gli serve per evitare la Palestina, ma anche elezioni in cui sarebbe travolto, e tre processi per corruzione che lo attendono da anni. Anshel Pfeffer, uno dei migliori analisti israeliani (e biografo di Bibi) spiega la situazione così: «Una coalizione internazionale contro l’Iran è ciò di cui Netanyahu ha parlato a lungo. Se le circostanze fossero diverse, potrebbe rivendicarla come sua eredità. Ma teme che, alla fine, il prezzo dell’adesione alla coalizione di Biden contro l’Iran sarà la fine della sua stessa coalizione di governo. Se Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich (i ministri estremisti), che chiedono una risposta devastante contro l’Iran, rimarranno nel governo nonostante una risposta molto più blanda, se ne andranno sicuramente se Netanyahu accetterà finalmente l’altra condizione per il grande piano di Biden: che l’Autorità palestinese prenda il controllo di Gaza».

Al centro ci sono sempre i palestinesi

Lo spiega perfettamente il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi in un’intervista a Marta Serafini, un documento importante perché chiarisce come sia illusoria la speranza di Netanyahu di far dimenticare ancora una volta l’epicentro del conflitto. Dice il capo della diplomazia di un Paese che è in pace con Israele da 30 anni, e che tre giorni fa ha contribuito in modo decisivo alla sua difesa facendo abbattere i missili iraniani nei suoi cieli, ma che ora non intende concedere i suoi cieli alla risposta israeliana:

«L’Iran ha risposto all’attacco al suo consolato a Damasco. L’onere di allentare la tensione ora ricade sul governo israeliano. Dunque che il primo ministro israeliano non pensi di distogliere l’attenzione dall’aggressione a Gaza, o di sfruttare il conflitto con l’Iran per salvare la sua carriera e servire l’agenda radicale dei ministri estremisti del suo gabinetto».

«
L’attenzione deve continuare a concentrarsi sulla fine della catastrofe di Gaza. Il primo passo per la de-escalation deve essere la fine della crisi alimentare per 2,3 milioni di palestinesi. E non dimentichiamoci che il numero di bambini uccisi da Israele nella guerra a Gaza è superiore al numero di bambini uccisi da tutti i conflitti nel mondo in più di quattro anni. Per questa ragione lavoriamo per una pace giusta e duratura che garantisca la sicurezza ai palestinesi e agli israeliani. La soluzione dei due Stati, che le misure israeliane stanno uccidendo, è l’unica via verso quella pace»
.

Il colpo dell’Europa (e dell’Italia)

Il colpo dell’Europa (e dell’Italia) Lo battono l’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera Josep Borrell e il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani. Borrell sembra la fotocopia dei giordani: «Non dimentichiamo Gaza perché non ci sarà possibilità di costruire una pace durevole nella regione se non verrà risolto il conflitto israelo-palestinese». Stessa posizione di Tajani, che aggiunge che l’Italia è disponibile a a mandare truppe di peacekeeping in una futura Palestina: «Siamo pronti a fare la nostra parte per la pace, come la stiamo facendo in Libano».

Insomma, d’ora in poi dovrebbe essere chiaro che quando si parla di grandi piani regionali senza parlare di Palestina è tutta fuffa.

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17 aprile 2024 (modifica il 17 aprile 2024 | 09:34)

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