La memoria ritrovata lungo il Fraser Canyon*
Molti pionieri italiani arrivarono qui per costruire strade e ferrovie. A Yale c’è un cimitero
in cui riposano alcuni di quegli uomini coraggiosi ma fortunati.
Anna M. Zampieri Pan**
Yale B.C. – No, non è la celebre Yale accademica, questa è una piccola contrada di tagliaboschi all’imboccatura del Fraser Canyon, 20 chilometri da Hope e circa 200 da Vancouver. Un punto quasi invisibile sulle mappe indicanti i percorsi di Transcanada Highway e Canadian Pacific Railway, le grandi arterie che attraversano l’immenso territorio tra l’Atlantico e il Pacifico. A Yale non si ferma quasi nessuno, non c’è nemmeno un distributore di benzina. Due trecento abitanti, quattro case sparse, un motel, uno spaccio tuttofare, la scuola elementare con annessa biblioteca pubblica, una chiesetta anglicana – St. John the Divine – risalente al 1863 e chiusa al culto. Eppure qui ci sono tracce di storia antica. Una storia affascinante da sembrare leggenda. Alimentata anche da presenze italiane, affidate unicamente alla memoria di qualche lapide nel Cimitero dei Pionieri e a qualche traccia negli archivi del minuscolo Museo.
Il grande Montanelli ha scritto un giorno che gli italiani sono un popolo senza memoria. Era uno dei suoi paradossi giornalistici per risvegliare i lettori. La memoria del passato, per noi che viviamo nei paesi del mondo senza appartenere ad un unico popolo, è invece fondamentale. Non dimenticare da dove siamo partiti e ricordare le tribolazioni vissute è fondamentale: dà significato al presente e prepara un futuro di maggiore consapevolezza. Favorisce rapporti leali e scambi onesti. Rafforza identità e quindi dignità. Crea relazioni di rispetto reciproco. Invita alla conoscenza concreta della realtà. Ecco perché occorre cercare, conoscere e raccontare….
Una città-boom
In mezzo a tanto silenzio e isolamento, non è facile immaginare la Yale di neanche un secolo e mezzo fa. Testimonianze storiche la definiscono “il centro più popolato ad ovest di Chicago e a nord di San Francisco”. Come è stato possibile? Tutto si spiega con il fenomeno permamente delle migrazioni di uomini in fuga da situazioni di disagio e in cerca di migliori condizioni di vita. Guerre, persecuzioni, epidemie, povertà, ingiustizie, insicurezza economica e sociale costituiscono in genere la spinta per dislocare individui e gruppi in cerca di accoglienza e di benessere, materiale e morale. Alcuni li rincorrono sfidando la sorte fino all’estremo, rischiando perciò la vita. Non tutti riescono a realizzare i loro sogni. Possono cadere vittime di approfittatori o di disgrazie naturali, ma anche lasciarsi ubriacare dal potere del denaro facilmente accumulato. Ci sono storie esemplari – e grazie e Dio sono la maggioranza! – di gente che ha saputo costruire una vita tranquilla per la propria famiglia e un futuro onesto per i propri discendenti, e ci sono invece storie di chi ha dilapidato in esperienze effimere patrimoni sia pure conquistati rischiando e soffrendo.
Il miraggio dell’oro aveva già attirato in California, nel 1849, gente da tutto il mondo, italiani compresi. Un decennio dopo, in via di esaurimento le riserve califoniane, s’era sparsa voce che lungo il Fraser, il più lungo fiume della British Columbia1, c’era talmente tanto oro da arricchire chiunque vi si avventurasse. I nativi conoscevano l’oro da sempre e ne avevano fatto merce di scambio con alcuni “fur traders”, i commercianti di pelli. E così trentamila e più tra cercatori e gente al seguito avevano invaso Yale, all’imboccatura del Fraser Canyon, piantandovi migliaia di tende e costruendovi centinaia di baracche.
Nel 1858 un esteso rumoroso accampamento era sorto quasi dal nulla intorno al forte abbandonato, edificato nel 1840 dalla Hudson’s Bay Company come uno degli avamposti in zona. L’estremo ovest del Canada costituiva una ricca risorsa di pelli per i commercianti europei, che in cambio portavano manufatti vari, come pentole in ferro e coperte di lana, ma anche alcool e armi da fuoco. Unica via di comunicazione era appunto il Fraser, navigabile dalla foce a Yale. Di qualche impervio sentiero attraverso le catene montuose della zona – i percorsi degli indigeni e dei primi esploratori – restano poche traccie. Ricerche archeologiche hanno collocato l’origine dei nativi del luogo tra gli otto e i diecimila anni fa. I pochi discendenti rimasti continuano la tradizione della pesca del salmone, per consumarlo fresco o seccato al sole e affumicato, e per usarlo nelle cerimonie comunitarie.2
Ma il fiume, con il suo oro e i suoi salmoni, va oltre Yale, prosegue impetuoso tra gole e rapide attraverso lo stretto e selvaggio canyon dalle pareti a strapiombo, su su fino ad allargarsi nelle praterie del Cariboo per poi ridiscendere deviando verso le Montagne Rocciose, luogo della sua sorgente, mille e più chilometri da Yale. L’oro non si esauriva dunque qui. La febbre era senza tregua. Il prezioso metallo sarebbe stato raccolto in abbondanza anche in Cariboo, dal 1862, quando fu avviata la costruzione della Cariboo Wagon Road. E tre anni dopo nel Kootenay, con la costruzione del Dewdney Trail, e poi nel Klondike (1898) e più tardi ancora in Alaska.
In ricordo dei caduti
Quale parte hanno avuto in tutto ciò gli immigrati italiani? Presso la “Yale and District Historical Society” non risultano nomi italiani correlati al periodo della corsa all’oro (Goldrush). “Ma sono certo che ce n’erano molti, se si considerano i 30.000 minatori dalla California arrivati in zona in quel periodo” afferma Bruce Mason, segretario-tesoriere dell’istituzione. Ma, e i nomi rilevati visitando il Cimitero e il Museo? “I nomi che abbiamo sono correlati alla costruzione della ferrovia”, mi dice e aggiunge: “Altri italiani, come i Suitto e i Bossi, a fine ottocento avviarono piccoli commerci di frutta e verdura in Yale. Un certo Frederick Biesta aveva acquistato del terreno a Spuzzum, 12 miglia a nord di Yale…”
Le presenze italiane sono perciò prevalentemente collegate alla costruzione della ferrovia, la Canadian Pacific Railway, i cui lavori ebbero qui avvio nel 1881. E più tardi della Canadian National Railway, la cui linea corre parallela a quella della CPR e fu costruita tra il 1911 e il 1914. “Quattordici uomini di varia nazionalità furono uccisi durante la costruzione della CNR, tra loro c’erano degli italiani. Altri morirono di polmonite doppia e di difterite. E ci furono frane ed esplosioni di mine…” Ecco dunque le spiegazioni che cercavo.
Nel Pioneer Cemetery, appaiate, avevo individuato le lapidi con i nomi di due giovani caduti, Manuele Di Nardo e Antonio Calderoni – ambedue provenienti da S. Nicandro (Sannicandro di Bari o San Nicandro Garganico?) e nati rispettivamente il 7 settembre 1881 e l’8 maggio 1888 – morti a Yale nello stesso giorno mese ed anno: 20 giugno 1912. Avevano 31 e 24 anni! Ho deposto dei fiori di campo. Poco distante, un’altra lapide, questa volta di un friulano di Casarsa, Luigi Francescutti di 26 anni, morto il 24 novembre 1912. Più sotto, ai piedi di un abete centenario, la tomba di Oliver Anselmi (il cognome è scritto con doppia elle, un comprensibile errore di ortografia) morto a 36 anni il 10 giugno 1898. Non c’è la provenienza, ma si legge “May his soul rest in peace”, riposi la sua anima in pace.
Nei registri dei defunti, al Museo, avevo trovato altri nomi: Antonio Salini, morto nel 1882, Carlo Castiglioni nel 1884, Francesco Serafino, 27 anni, il 30 ottobre 1911, Tony Caldrini il 21 giugno 1912. Tutti caduti sul fronte del rischioso lavoro accettato emigrando e sognando di vincere. Quanti altri nel mondo? Ma…. la vita continua. Nell’archivio dei matrimoni celebrati in quegli anni, una scoperta curiosa: uno sposo indicato unicamente come “Rancher” (da ranch = allevamento di bestiame) nato a “Naples Italy” non si sa quando però da “parentes Nicola e Teresa”, unitosi ad una nativa del posto. Come definire oggi nome e identità dei loro discendenti?
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1 1368 chilometri (850 miglia) di lunghezza, nasce nelle Montagne Rocciose ai piedi del Monte Robson, fluisce a nord e quindi si rivolge a sud all’interno della British Columbia, tagliando le profonde gole del Canyon prima di raggiungere l’oceano Pacifico a Vancouver. Ha preso il nome dall’esploratore americano di origine scozzese Simon Fraser che nel 1808 lo percorse interamente in 36 giorni, parte in canoa e parte arrampicandosi sulle pareti del Canyon, aiutato dagli indigeni del luogo, onde superare gole e rapide, in particolare quelle di Hell Gate.
2 I discendenti sono ora parte della First Nation, la prima nazione, com’e’ ufficialmente chiamata. Del “Tait People” (conosciuto anche come “Sto:lo” = gente del fiume) esiste tuttora un piccolo villaggio lungo il Fraser River nei pressi di Yale.
© Anna M. Zampieri Pan (2001)
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* La memoria ritrovata lungo il Fraser Canyon, già “pubblicato in Nov 2001 dall’edizione per l’estero della rivista mensile il Messaggero” viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice Anna M. Zampieri Pan.
** Anna M. Zampieri Pan Anna M. Zampieri Pan, giornalista freelance con oltre 50 anni di attività nel campo della comunicazione, è nata a Vicenza e si è trasferita all’inizio degli anni Ottanta in Canada, dove fino al 1990 ha anche diretto il settimanale della British Columbia L’Eco d’Italia. Vive appena fuori Vancouver, in un villaggio di pescatori.
1 ottobre 2006