Un articolo del Prof. Gianpaolo Romanato sul “Corriere del Veneto”
I veneti in Canada
L’emigrazione che non fa rumore
(GRTV) Il Canada è più grande della Cina e meno abitato della Polonia. Trenta milioni di persone distribuite su un territorio di quasi dieci milioni di chilometri quadrati. Più o meno come se la popolazione della provincia di Padova avesse l¹Italia tutta per sé. Per noi che viviamo stipati come le sardine, è difficile immaginare gli immensi spazi vuoti canadesi: più di seimila chilometri da un oceano all’altro, quasi altrettanti da nord a sud.
Il confine meridionale è alla stessa latitudine di Roma, quello settentrionale s’incunea nelle terre artiche. E dentro c’è il vuoto, dato che tre quarti dei canadesi vivono concentrati nelle città. Eppure la crescita demografica di questo paese lontano e poco conosciuto, nonostante vi risieda una comunità italiana equivalente alla popolazione del Friuli, è stata fra le più rapide: nel corso del ‘900 i suoi abitanti sono aumentati di sei volte. Un accrescimento eccezionale, percentualmente maggiore anche di quello registrato negli Stati Uniti, dove all’inizio del secolo vivevano settantacinque milioni di persone e oggi ce ne sono quasi trecento. A che cosa è dovuto quest’aumento? A un tasso di natalità molto alto, ma anche ad una politica che ha sempre favorito l’immigrazione. A partire dalla fine dell’800 le due comunità “storiche”, inglese e francese, si sono arricchite di immigrati provenienti da ogni parte del mondo. Nel decennio precedente la Prima guerra mondiale entrarono 350.000 persone ogni anno. Poi l’afflusso si attenuò, per riprendere con lo stesso ritmo dopo l’ultima guerra. Fino al 1968 furono accolti tre milioni di nuovi cittadini. Così oggi quasi un terzo della popolazione è costituita dai cosiddetti “neocanadesi”, cioè da immigrati recenti. In questo mosaico di popoli e di lingue (Toronto è considerata una delle città più cosmopolite del mondo) gli italiani sarebbero circa un milione e mezzo, il 4% del totale, secondo il censimento del 2003. E’ difficile dire quanti di questi provengano dal Veneto. Secondo i conteggi induttivi fatti da Gabriele Scardellato, che insegna storia italiana e canadese alla University of Toronto (A monument for Italian-Canadian Immigrants. Regional migration from Italy to Canada, Toronto, 1999), vi sarebbero stati nel secondo dopoguerra circa cinquantamila immigrazioni dalla nostra regione, che si sommano a quelle avvenute nei primi decenni del O900. Si tratta insomma di una componente significativa, anche numericamente, nella little Italy canadese. Concentrati prevalentemente nell’Ontario, dove possono contare su un’attivissima “Federation of Veneto clubs” (www.terraveneta.org), ma presenti anche altrove e con una consistente rappresentanza fin nella lontana Vancouver, sul Pacifico, dove i primi arrivarono alla fine dell’800,i canadesi di origine veneta sono una comunità molto ben integrata. Inizialmente raggruppati attorno alle società di mutuo soccorso, dopo la guerra hanno privilegiato un associazionismo ispirato alle regioni o alle province di provenienza. Vivendo in un paese, tollerante, accogliente, dove si mescola gente affluita da ogni angolo del pianeta, che offre ottime opportunità di lavoro a tutti e ha imboccato, attraverso una legge del 1988 (Canadian Multiculturalism Act del 21.7.1988), frutto della politica lungimirante di Pierre Trudeau, una strada diversa da quella degli Stati Uniti, cioé il multiculturalismo (non l’assimilazione ma la valorizzazione delle diversità, a partire da quella linguistica), non hanno mai trovato difficoltà di inserimento. Secondo Clifford Jansen della York University, che ne scrive sulla rivista Altreitalie della Fondazione Agnelli (una delle poche testate che dedicano attenzione a questa realtà, interamente disponibile online: www.fondazioneagnelli.it), gli italiani non devono più essere considerati una comunità di immigrati ma un solido gruppo all’interno del variopinto mosaico canadese. Un gruppo che riesce ad esprimersi anche letterariamente, come dimostra The Antology of Italian Canadian Writing, pubblicata a Toronto nel 1998 da Joseph Pivato. Il testo passa in rassegna una cinquantina di autori: voci creative di una minoranza che sta assumendo la canadesità – per problematica che sia – come propria cifra espressiva. L¹antologia è apparsa presso le edizioni Guernica, che hanno preso nome dalla città spagnola bombardata nel 1937 proprio per sottolineare il valore primario della convivenza, della comprensione, dell’accoglimento di ogni espressione linguistica e di ogni provenienza culturale. Per questo pubblicano in varie lingue, compreso l¹italiano. L’emigrazione tradizionale dall’Italia è cessata da almeno vent’anni. Oggi arrivano soltanto ricercatori, intellettuali, colletti bianchi. E così è venuto il momento delle rievocazioni. Si è aperta l’anno scorso, e rimarrà visibile fino al mese di settembre, una grande mostra sull’apporto degli italo-canadesi alla costruzione di questo paese. La mostra, che si intitola Presenza, è ospitata presso il Museo Canadese delle Civiltà di Ottawa, fra i più grandi (www.civilizations.ca) di tutta la federazione. La rassegna – la cui eco in Italia è stata minima – ha due obiettivi. Il primo l’ha ben espresso Anna Maria Zampieri Pan, trapiantata a Vancouver dalla natia Vicenza, scrivendo che la grandezza degli emigrati italiani è costituita dalla loro normalità. Gente semplice, che tuttavia ha dato molto al Canada, non solo con il lavoro, in particolare nell’edilizia, o con le piccole o grandi fortune accumulate, ma anche smussando la rigidezza anglosassone del paese, addolcendo il suo modo di vivere: dalla gastronomia, all’abbigliamento, allo stile delle abitazioni e dei giardini. Un concetto sul quale insiste anche Joe Zanchin, padovano, emigrato una quarantina d’anni fa e oggi proprietario in Ontario di un impero nel settore automobilistico. Il secondo obiettivo dell’esposizione è dimostrare che il vecchio mondo rurale e artigiano che aveva alimentato l’emigrazione, oggi si è integrato nella modernizzazione del paese di accoglienza senza rinnegare o nascondere la sua provenienza. L’ideatore della rassegna, Mauro Peressini, antropologo con origini friulane ed esperienza di insegnamento in Calabria, insiste molto su questa idea: non rifiutare le proprie origini, per quanto modeste, ma valorizzarle e presentarne gli aspetti positivi, creativi, è il modo migliore per evitare le crisi di identità. Si nota tuttavia che la progressiva integrazione nel paese sta mutando il volto della comunità italo-canadese. Si sta cioè erodendo quella che era la caratteristica primaria delle associazioni tradizionali: il riferimento regionale, il richiamo alla provincia o addirittura al paese di provenienza. Solo i circoli veneti, secondo il censimento fatto da Scardellato, sarebbero almeno una cinquantina, con prevalenza di quelli trevigiani, bellunesi e vicentini. Questi gruppi hanno svolto una funzione importante nella prima fase dell’emigrazione. Elio Costa, che insegna letteratura italiana alla York University, racconta sul “Corriere Canadese” senza rancore la propria amarezza: “Ci siamo sentiti indifesi. L’Italia ci ha messo in mano un passaporto e poi chi s’è visto s’è visto. E’ stata una vergogna”. Allora le associazioni sono servite a rendere meno duro l’inserimento. Parlare in dialetto, ritrovarsi con gente che veniva dagli stessi luoghi, rinnovare tradizioni e modi di vita del luogo d¹origine era come trovare un po’ del calore perduto di casa. Oggi invece tutto sta cambiando. Per la nuova generazione, che ha studiato nelle ottime università canadesi, che parla l’italiano con qualche difficoltà, la patria è il luogo in cui si vive, non la terra dei ricordi. A questi giovani non occorrono rifugi ma occasioni per riflettere, stimoli a conoscere l’Italia d’oggi, quella reale, non l’Italia della memoria di ieri. Lo studio dell’italiano (non solo della lingua ma anche della cultura, della storia, delle espressioni d’arte), per la verità largamente coltivato sia nelle università – a Toronto c’è la più vecchia cattedra di italiano del Nord America – sia nelle scuole canadesi, rimane probabilmente l’unica via per mantenere agganciate le nuove generazioni, per proiettare verso il futuro la loro origine italiana, senza impigrirla nella nostalgia. Anche l’esercizio del voto, per queste comunità italiane ormai definitivamente radicate altrove e senza i problemi economici dei nostri connazionali in Argentina e Uruguay, ha un valore poco più che simbolico: ciò che chiedono è che si riannodi un legame di culture e di valori, non che gli si accordi un diritto formale.
Gianpaolo Romanato (*)
Corriere del Veneto (Corriere della Sera)
(*) Il Prof. Romanato è docente di Storia della chiesa moderna e contemporanea all’Università di Padova
5 aprile 2004